I protagonisti delle due culture

    Luisella Battaglia

    Già professore ordinario di Filosofia Morale e Bioetica, insegna nelle Università degli Studi di Genova e Suor Orsola Benincasa di Napoli. Nel capoluogo ligure ha fondato l'Istituto Italiano di Bioetica, di cui è direttore scientifico. È membro, dal 1999, del Comitato Nazionale per la Bioetica. Tra le sue pubblicazioni: Etica e diritti degli animali, (Ed. Laterza, 1997); Alle origini dell'etica ambientale. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi (Dedalo, 2002); Bioetica senza dogmi, (Ed. Rubbettino, 2009 - Premio Le Due Culture 2010); Un'etica per il mondo vivente. Questioni di bioetica medica, ambientale, animale, (Ed. Carocci 2011); Uomo, Natura, Animali. Per una bioetica della complessità, Ed. Altravista 2016; Bioetica, Editrice Bibliografica 2022; con Franco Manti, Bioetica e biopolitica nell’orizzonte della complessità, University Press di Genova 2023.

     

    Professoressa, il 2023 è stato un ‘mondo verde’?

    Il bilancio non mi sembra particolarmente lusinghiero. Direi che, come genere umano, pur avvertendo una crescente preoccupazione per le tante e tanto evidenti criticità ambientali, sfociante anche in forme di autentica eco-ansia, non siamo stati capaci di sentirci, come siamo, una ‘comunità di destino’ e di seguire un’etica della responsabilità, adottando politiche conseguenti.

     

    Quali approcci, non solo normativi, attualmente in essere, individua e promuove, su scala mondiale, come funzionali all’avvio di un percorso risolutivo del problema?

    Per quanto riguarda l’Italia, sono soddisfatta per l’approvazione dell’art. 9 della Costituzione, che recepisce, al più alto livello normativo, l’esigenza di una non più rinviabile salvaguardia dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Un indirizzo, purtroppo, recentemente contraddetto da alcune scelte territoriali in materia di parchi naturali e aree verdi.

    Sul piano mondiale, la prospettiva più volte auspicata da eminenti giuristi di un Tribunale Internazionale dell’Ambiente, mi sembra acclarare la raggiunta consapevolezza della necessità di una non rinviabile planetarizzazione del problema. Basti pensare a una questione come quella, ormai antica, del disboscamento in Amazzonia, non certo riducibile, per la sua ‘enormità’, a responsabilità e competenze del solo Brasile o dei pochi Paesi confinanti. Renzo Piano invoca, molto suggestivamente, la necessità di un ‘’grande rammendo’’, facendo appello alla capacità umana di ‘ricucire’ il territorio con interventi a bassa invasività. Apprezzo molto questa concettualizzazione, intrisa di pazienza e umiltà.

     

    E cosa le suggerisce la più recente speculazione bioetica?

    Registro una crescente assunzione di responsabilità verso il mondo vivente, grazie anche al recupero di una visione originaria della disciplina, risalente al filosofo tedesco Fritz Jahr, che coniò il termine bioetica nel 1927 per indicare quel particolare aspetto dell’etica che concerne i rapporti che dovrebbero instaurarsi tra l’uomo, gli animali e le piante, ossia con l’intero mondo dei viventi. Si tratta, quindi, di superare l’idea, ormai scientificamente insostenibile, di un grande salto tra mondo umano e mondo non umano e di adeguare coerentemente il nostro comportamento nella vita quotidiana ai dati che le scienze ci offrono. Come dire, ‘Le 2ue Culture’ compresenti sin dalle origini. Un approccio dimenticato o attenuato negli anni successivi. Dobbiamo, quindi, semplicemente, superare l’oblio delle origini.

     

    L’aspirazione a un mondo verde tendenzialmente unisce tutti, eppure, in politica, proclami formali a parte, si stenta a porre in cima all’agenda dei partiti un tema del genere. Come spiega questa contraddizione?

    Il quadro è piuttosto composito. In Germania, ad esempio, a partire dagli anni Settanta, il partito dei Gruenen (verdi) è diventato una forza politica importante, grazie a un atteggiamento pragmatico, non paragonabile a certi fondamentalismi e purismi dei verdi di casa nostra. I Gruenen, in questo modo, sono riusciti ad imporre la tematica ambientale, come ineludibile. Nel nostro Paese, invece, si continua a considerare tale tematica come marginale anziché, come dovrebbe, trasversale ai diversi schieramenti e legata a fenomeni complessi, dall’economia al diritto. Complessivamente, su scala mondiale, la situazione non appare rassicurante.

     

    Come giudica, al contrario, la notevole sensibilità mostrata sul tema dall’attuale Papa, e, più in generale, da molti intellettuali cattolici?

    La considero una straordinaria presa di coscienza, anche se un po' tardiva. Un’eco-teologia francescana, non casualmente abbracciata da un Papa che ha scelto il nome del grande santo di Assisi. Una visione autenticamente teocentrica, in cui l’uomo è un amministratore, un custode del creato divino. Una vera rivoluzione, considerando che nella visione antropocentrica, storicamente dominante anche in ambito cristiano, l’uomo assume il ruolo del padrone. Papa Francesco, con la sua ‘Laudato sì’, ha quindi avuto il grande merito di ritrovare la strada di un’etica della cura del creato.

     

    Relativamente a questo settore, ci fa il punto sul dibattito e le iniziative in corso in seno alle altre grandi religioni mondiali?

    Per le grandi religioni monoteiste dovrebbe valere la stessa visione teocentrica di cui abbiamo già parlato, rinvenibile, comunque, sia nella Bibbia sia nel Corano. L’Induismo, con il suo concetto di comunità e fraternità tra i viventi, ci spinge, forse, ancora oltre. Non molto diversamente, nel Buddismo (che sia o meno considerabile una religione), l’etica della compassione avvolge l’intero ciclo della vita. Aspetti, quelli della fraternità e della compassione, per nulla estranei alla tradizione culturale occidentale, anche laica, come insegna l’Illuminismo e come conferma il celebre invito rivoluzionario alla libertà, alla fraternità e all’uguaglianza. Dovremmo, a mio avviso, parlare di fraternità terrestre, da sentire sul piano etologico, nel riconoscimento di una comune appartenenza al mondo animale, almeno in quanto esseri vulnerabili. Una fraternità acclarata scientificamente, pur nelle diversità, e che, d’altra parte, risente sempre meno dei presunti divari in ambito cognitivo, come la neurobiologia animale e vegetale inizia a mostrarci.

     

    E che fine hanno fatto le tante fedi ‘ambientaliste’ post-sessantottine?

    Non ho avuto mai particolari simpatie per questi movimenti simil new age, con il loro portato confusamente misticheggiante. Ammetto, tuttavia, che hanno comunque contribuito alla diffusione di una certa coscienza ecologica nelle grandi masse. Un discorso estensibile, al giorno d’oggi, a movimenti quali Fridays for Future e a figure come la giovane svedese Greta Thunberg. Un contributo ben più importante è stato dato, in ambito bioetico, dal pensiero della complessità, capace di teorizzare e mostrare le interazioni e correlazioni tra i viventi, nel quadro di un’ecologia delle azioni.

     

    Attualmente le politiche ambientalistiche sembrano allargare il solco tra l’Occidente, sviluppatosi anche grazie ad approcci del passato piuttosto indifferenti o aggressivi, e il Sud e l’Est del mondo, affamati di crescita e, quindi, insofferenti alle autolimitazioni giudicate necessarie per il benessere globale. Come se ne esce?

    Ho partecipato nel 1992 all’’Earth Summit’ di Rio de Janeiro e posso testimoniare che già allora il problema era molto avvertito. Negli anni si è sviluppata, opportunamente, la consapevolezza della possibilità di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, fondati sul concetto di qualità piuttosto che su quello, ancora oggi dominante, della quantità. Pensi, per fare solo un esempio molto noto in Occidente, all’approccio delle capacità di Amartya Sen, fondato sulla distribuzione dei beni e sull’effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani, quali la salute, la nutrizione, la longevità e l’istruzione. Diverse risposte e diversi approcci, legati anche al recupero delle tradizioni.

     

    Professoressa, nei suoi scritti in materia, la sua attenzione, pur nell’ambito di una bioetica della complessità, ha privilegiato il mondo animale. Dobbiamo aspettarci un suo volume sull’etica delle piante?

    Direi proprio di sì. Ritengo, infatti, che la neurobiologia vegetale sia un tema di straordinaria attualità. Espressioni come diritti delle piante, ormai in uso, meritano di essere chiarite e messe a fuoco, mettendole al riparo da rischi antropomorfici. Ad esempio, non mi sento di poter dare per acquisito che possa parlarsi di diritti delle piante. Non dobbiamo avere fretta di assegnare nuovi diritti, pur nell’auspicabile crescita, sul punto, di un’etica della responsabilità da parte dell’uomo.

     

    Tra i grandi pensatori del passato che hanno posto il tema del mondo verde al centro dei propri studi, chi ha intravisto le problematiche e i rischi che oggi corriamo?

    Con una certa audacia, direi che l’invio di Voltaire a ‘’coltivare il proprio giardino’’ possa considerarsi una visione precocemente ecologista. Trovo straordinario, più avanti nel tempo, il pensiero di Élisée Reclus. Ancora in pieno Ottocento il grande geografo francese ha infatti scritto che ‘’l’uomo è la natura che ha preso coscienza di sè stessa’’, preconizzando in tal modo un nuovo umanesimo ecologico capace di integrare i principi dell’etica umana con i nuovi doveri verso la natura.

    Mi lasci ricordare, tornando a casa nostra, la Legge sulla tutela del paesaggio del 1922, nella quale Benedetto Croce, dopo una lunga battaglia politica, trasfonde la sua filosofia del paesaggio, legando quest’ultimo al concetto di patria, con tutta l’eredità monumentale, artistica e, in fin dei conti, culturale, che incarna.

     

    Si può applicare, come alcuni sembrano volere, la categoria ‘ecologica’ anche a tematiche più strettamente bioetiche, quali, ad esempio, la maternità surrogata o l’ideologia gender?

    Non mi sentirei di associarle. Nei miei scritti mi riferisco a tre diverse dimensioni della bioetica: bioetica medica-umana; bioetica ambientale; bioetica animale. Un nucleo unitario in questa tripartizione va ricercato, ma senza forzature. Come ci invita a fare il pensiero della complessità, il riconoscimento delle interrelazioni tra forme e aspetti del vivente non può significare confusione di diversi ambiti di ricerca, ciascuno dei quali dev’essere considerato nella sua specificità.

     

    Nella grande diatriba in corso tra la maggioranza della comunità scientifica internazionale, che individua specifiche responsabilità umane per il dramma del surriscaldamento globale e chi, invece, considera il fenomeno non determinato dall’uomo, un approccio bioetico corretto quale metodo deve seguire?

    Penso che la via mediana sia quella che una bioetica seria debba intraprendere. L'impronta ecologica dell’uomo non può essere negata e si dovrebbe suggerire un per-corso di etica della responsabilità, capace di dare all’uomo il sentimento e la consapevolezza del peso del proprio ruolo. Hans Jonas dimostra chiaramente che quanto più potere tecnologico si ha, tanto più questo deve essere governato in termini di responsabilità. La tecnologia, ad esempio, risolve molti problemi, ma ne crea anche di nuovi. Una tematica che, tra l’altro, si pone in maniera del tutto inedita in questi anni. Per la prima volta, infatti, quando si parla di impatto delle nostre politiche sulle generazioni future ci si riferisce a persone lontane da noi anche molte centinaia di anni nel futuro, chiaramente assenti dal tavolo delle trattative.

     

    E dove si può individuare un minimo comun denominatore?

    Ancora una volta in un’etica della responsabilità, segnata dalla prudenza, nel significato aristotelico del termine, e aperta sempre a una ragionevole speranza.

     

    Ettore Zecchino

     
    Mario Panizza

    Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana, Mario Panizza è stato Rettore dell’Università degli Studi ‘Roma Tre’ dal giugno 2013 allo stesso mese del 2017. La sua attività di ricerca ha riguardato soprattutto lo studio comparato tra i caratteri degli edifici e i tessuti urbani consolidati, significativi dal punto di vista dell’interesse storico-architettonico. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, dal 2019 collabora alla ‘Terza Pagina’ del quotidiano ‘l’Osservatore Romano’.

     

    Professore, è ‘nato’ architetto o lo è diventato per qualche specifico episodio biografico?

    L’architettura è stata la mia passione sin da ragazzo, probabilmente anche per una mia particolare attitudine per il disegno che, forse erroneamente, consideravo la caratteristica principale di un architetto. Dopo i primi anni di studi universitari questa convinzione si è molto attenuata. La passione, al contrario, si è accentuata e continua ad accompagnarmi.

     

    Generalmente, la fascinazione dei non addetti ai lavori per un architetto è incomparabilmente superiore a quella per un ingegnere. Ci descrive qualche eccezione?

    Di questo assunto, in realtà, sono convinto solo fino a un certo punto. Si tratta, forse, di una fascinazione di ‘primo livello’. Andando più a fondo, le sensazioni cambiano. Il grande costruttore di ponti, ad esempio, è una delle figure più apprezzate e omaggiate. D’altra parte, il ponte più bello è quello che non cade e il compito principale dell’ingegnere è proprio quello di preservarci da questa drammatica eventualità.
    Citando Vitruvio, l’utilitas (la funzionalità), la firmitas (la solidità statica) e la venustas (la bellezza estetica) devono essere presenti sia in un’opera di architettura sia in un progetto ingegneristico; ma le prime due sono assolutamente imprescindibili. L’attenzione alle ricadute sociali dell’architettura è sempre stata la mia stella polare.

    Può una buona architettura essere insensibile al dato estetico?

    Certamente no, anche se bisogna intendersi sul significato di queste parole. Secondo me, ad esempio, la qualità estetica di un’opera architettonica si misura attraverso la sua capacità di inserimento nell’ambiente circostante, soprattutto in relazione al periodo storico in cui è realizzata. Certo, essa può anche essere assertiva e dissonante, ma deve sempre saper dialogare con ciò che le sta intorno. Il valore estetico di un’opera di architettura è infatti in strettissima relazione con la sua capacità comunicativa, con la sua capacità di parlare da sé e di sé, anche quando non esprime una mimesi armonica con l’ambiente che la circonda.  Comunque, un’opera architettonica non può essere solo funzionale. Chi la utilizza deve sentirsi spinto a preservarla, a conservarla proprio per ciò che esprime, compresa la sua bellezza.


    Il percorso di studi più adatto agli ingegneri e agli architetti?

    Quando mi sono laureato, il percorso era quinquennale. Gli ingegneri avevano un biennio molto teorico e un successivo triennio, durante il quale, gradualmente, cominciavano ad applicare in concreto quanto precedentemente appreso. Gli architetti, al contrario, erano indotti a progettare sin dai primi anni. Gli attuali corsi di studio prevedono, per entrambi, un triennio generalista e un biennio specialistico. Credo sia un percorso abbastanza sano. La differenza sostanziale, sia pur meno evidente rispetto al sistema precedente, rimane la presenza di studi teorici più approfonditi e permanenti per gli ingegneri.

    Quanto al percorso scolastico pre-universitario, direi che fondamentale è acquisire un metodo di studio. Personalmente, pur avendo compiuto studi classici e quindi con conoscenze di settore alquanto limitate, mi sono trovato sempre bene all’Università. Un ruolo cruciale credo lo svolgano discipline apparentemente lontane dalla nostra formazione, come la filosofia, in grado di allenarci alla costruzione del pensiero.

    L’Italia è tra le grandi patrie dell’architettura e, probabilmente, la patria per eccellenza della pittura, una sua grande passione, ultimamente sempre più praticata. Si sente un arcitaliano?

    Ho sempre aspirato a diventare un cittadino del mondo. Anche per questo ho cercato di viaggiare tanto e di apprendere nuove cose, da punti di vista sempre differenti.

    L’insegnamento dell’architettura in Italia come si colloca, mediamente, nelle graduatorie mondiali?

    Non bene, come testimoniato anche dal fatto che gli studenti italiani cercano spesso di trasferirsi all’estero per la laurea specialistica. In quei contesti ci sono infatti più mezzi e, soprattutto più vitalità architettonica, sperimentale e realizzativa. Nel centro di Parigi, o di Londra, per non parlare di Melbourne, si vedono tanti cantieri all’opera. Nel nostro Paese, qualche gru si vede uscendo dalla stazione di Milano.

    Quali sono le riconosciute eccellenze?

    Direi lo IUAV di Venezia e il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara.

    Nelle ultime settimane sono esplose le proteste studentesche per l’insostenibilità degli affitti. Un tema a lei caro?

    Molto caro. Non a caso, da rettore dell’Università Roma Tre, riuscii a realizzare una Casa dello studente, e, successivamente, mi dimisi per una resistenza interna nello stesso campo. Resistenza a interpretare la sistemazione abitativa dello studente come uno dei capisaldi della sua formazione universitaria, anche in relazione all’inevitabile percorso di uscita dalla famiglia. Certo, in Italia le tasse universitarie sono più basse che altrove, ma le due cose possono restare distinte e convivere. La tanto auspicata interazione tra studenti italiani e stranieri è molto condizionata proprio da questo, dalla mancata soluzione del problema delle residenze.

    Può indicarci i passaggi chiave della sua lunga e prestigiosa carriera accademica?

    Sono stato Ricercatore per ben 21 anni. Poi, piuttosto rapidamente, sono stato ‘promosso’ a Professore Associato e, in breve tempo, a Ordinario. Successivamente, sempre in poco tempo, sono diventato Direttore di Dipartimento, e, infine, Rettore. In parole povere, la metà del mio percorso accademico si è svolto nel ruolo di ‘semplice’ Ricercatore. Ho insegnato sempre architettura sociale e progettazione architettonica.

    E le pubblicazioni scientifiche alle quali è maggiormente legato?

    Sicuramente l’aggiornamento della voce ‘Edilizia scolastica’ nel manuale l’’Architettura pratica’, di Pasquale Carbonara. Poco tempo prima, con la tesi di laurea, mi ero occupato dell’espansione urbanistica di Roma. Il libro che mi ha dato maggiori soddisfazioni, con riconoscimenti anche all’estero, è stato, però, ‘Mister Grattacielo’, con oltre 3mila copie, non male per un testo di architettura. Altri due libri per me importanti sono stati ‘Gli edifici per lo spettacolo’ e ‘Gli edifici per la musica’. Attualmente mi sto dedicando alla raccolta degli articoli scritti, dal 2019 a oggi, per l’’Osservatore Romano’, sotto il titolo ‘Architettura Sociale’, a chiusura di un cerchio di biografia accademica.

    Come è andato il suo personale ‘Giro del mondo in 80 ‘tombini’?

    Molto bene. Ho dipinto tombini, quasi a grandezza naturale, per più di 10 anni. Nei miei viaggi ne ho incontrati tanti. Prima li fotografavo e poi, tornato a casa, li dipingevo. Un ‘gioco’ divertente, forse anche un po' snob: nobilitare a forma d’arte un oggetto di uso quotidiano.

    Ultimamente sta indirizzando la sua attenzione sul ‘nuovissimo’ mondo. Anche in Australia le piazze hanno l’importanza che, sia pur declinante, continuiamo ad attribuire loro in Europa?

    Sì. Basti pensare a quella antistante la baia di Sydney. In generale, le città australiane colpiscono per una non scontata bellezza: dall’eleganza di Sydney e Melbourne all’autenticità di Perth, dove, tra l’altro, si incontra un tombino particolarmente suggestivo che riproduce il disegno aborigeno dell’anno solare diviso in sei stagioni.

    Facendo moltissimi passi indietro, ci può dire quando e dove è nata l’architettura?

    L’architettura moderna è nata con l’Illuminismo, caratterizzata dalla scomparsa degli stili e dalla formazione degli impianti funzionali. Le prime tracce di architettura sono invece ravvisabili nelle modifiche al paesaggio fatte dall’uomo per riuscire a governare il territorio circostante a fini agricoli. Parliamo di oltre 10mila anni fa e di aree del mondo molto distanti, senza alcun contatto reciproco.

    Chi e come ha costruito le gigantesche piramidi egizie in pieno deserto? E le tante altre opere simili nell’antichità?

    Posso solo dire che la piramide ha una valenza eccezionale per l’architetto. Una forza emotiva che si sprigiona sia all’interno, lungo i suoi stretti cunicoli, sia all’esterno, nel corso della sua ascesa, quando, immediata, si vive la sensazione di volare. Mi incuriosisce molto anche la straordinaria capacità degli antichi Romani di costruire città ovunque, nel Mediterraneo e oltre. Un esempio straordinario è la siriana Palmira, in pieno deserto una città romana a tutti gli effetti.

    Quale forma architettonica è sopravvissuta più a lungo nella storia dell’uomo?

    Direi quella dell’antichità classica greca e romana, non a caso rivisitata anche dall’architettura postmoderna.

    I grattacieli sono già concettualmente obsoleti?

    No, anzi, ritengo che siano l’espressione più vitale e autentica della nostra epoca. Fra 400 anni l’Empire State Building di New York potrebbe essere studiato come, oggi, il Partenone di Atene.

    Le sue opere preferite, spalmate in tutte le epoche?

    Il Chrysler Building di New York, la Galleria d’arte Moderna di Berlino, il prototipo della villa palladiana. Andando più indietro, i due teatri classici, sia quello greco, sia quello romano.

    Si può definire il grande architetto come una personalità al confine tra le ‘due culture’?

    Certamente sì. Deve infatti avere salde capacità e competenze scientifiche, ma anche la giusta sensibilità umana, per utilizzarle al meglio a fini sociali.

    Nel suo mondo quanto influisce ora e quanto potrà farlo in futuro l’intelligenza artificiale?

    La computer grafica è già una realtà da anni, ma io uso ancora la matita.

    Un’urbanistica di qualità è spesso viatico di fama e lustro per gli amministratori di un territorio. Come va improntato correttamente un rapporto tra politica e ‘archistar’?

    In due parole, attraverso il controllo della modellistica e degli standard.

    Più prosaicamente, è prevista una formazione specialistica per chi è destinato ai ‘famigerati’, ma fondamentali ‘uffici tecnici urbanistici’ dei vari enti territoriali?

    Ci sono dei master universitari specifici, ma la formazione vera avviene all’interno degli stessi uffici, sempre che ci sia un bravo maestro, carico di esperienza e, soprattutto, generoso nel trasmetterla.

    La coscienza contemporanea può ancora consentire l’abbattimento di opere considerate ‘brutte’, per far posto al nuovo che avanza?

    Il concetto di brutto è molto relativo. Lo sostituirei con quello di inutile, nell’accezione più ampia del termine.

    Le sue archistar del cuore in ogni epoca?

    Andrea Palladio, Le Corbusier, Mies van der Rohe e Alvar Alto.

    Un abbinamento perfetto tra opere musicali e monumenti?

    Alvar Alto e Jean Sibelius. Una perfetta sintesi del romanticismo nordico.

    Venendo alla stretta attualità, ci offre un suo parere in merito alla dibattutissima vicenda del bonus ristrutturazione?

    Non mi ha convinto fino in fondo, anche se qualche aspetto positivo si può rinvenire. Comunque, non ha avuto il respiro di provvedimenti simili del passato, destinati a sostenere l’edilizia (ad esempio il Piano INA Casa).

    E, più in generale, sulla politica italiana in materia negli ultimi decenni?

    Il giudizio non è positivo. Nelle opere pubbliche si è proceduto, infatti, soprattutto con appalti integrati, generando continue revisioni in corso d’opera e adeguamenti progettuali, quasi sempre peggiorativi.

    L’architettura, come ogni attività umana, è imperativamente chiamata a virare sempre più decisamente in direzione ‘green’. Quali linee guida indica in tal senso?

    La svolta green dovrà riguardare principalmente le periferie, dove è possibile ricavare spazi di ‘diradamento urbano’ e inserire nuovi servizi all’interno di condomini e di aree urbane ancora inedificate. Il distanziamento sociale, come ci ha tra l’altro dimostrato la pandemia, offre un potenziale di utilità sociale più ampio delle facciate verdi.

    E quali esempi, sparsi nel mondo, considera imprescindibili?

    Il Piano Urbanistico di Amsterdam, progettato da Hendrik Petrus Berlage, ma anche il Central Park di Manhattan, opera di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux. Anche in Australia potrei fare molti esempi.

    Le sue passioni fuori dalle arti figurative?

    Andare in giro per il mondo in bicicletta. Amo anche il ciclismo come sport e considero un gran privilegio l’invito ricevuto a seguire, ovviamente in macchina, la tappa del Giro d’Italia con arrivo a Pinerolo, in qualità di ‘rettore ciclista’. Oggi evito le salite, ma continuo a pedalare lungo i fiumi.

    Un suggerimento per migliorare architettonicamente la sede di Biogem?

    Per il momento no. Lasciamola crescere immersa nel verde e vediamo.

     

    Ettore Zecchino

    Luigi Paganetto

    Professore emerito di Economia politica, Luigi Paganetto ha fondato, nell'anno accademico 1987-88, la Facoltà di Economia di Tor Vergata, a Roma, guidandola in un percorso scientifico e didattico, che, nei 20 anni successivi, l'ha fatta diventare, a giudizio generale, una delle più quotate sedi universitarie italiane ed europee. Particolarmente impegnato nell’ambito dell'economia internazionale ed europea, ha ideato, nel 1988, il CEIS (Centre for Economic and International Studies) e, insieme al premio Nobel Edmund Phelps, nello stesso anno, il ciclo dei ‘Villa Mondragone International Economic Seminar’, sui temi dello sviluppo e delle politiche per la crescita.
    Nel 2008 ha fatto nascere la Fondazione Economia dell'Università di Roma Tor Vergata, impegnata, con il ‘Gruppo dei 20’, nel ‘Revitalizing Anaemic Europe’, e, in generale, sui temi di ‘policy’ come espressione della ‘terza missione’ dell'Università.
    Vice-presidente del CNR nel 1996, diviene Commissario straordinario dell'Enea nel 2005, e poi Presidente dello stesso ente dal 2007 al 2009. Rappresentante italiano presso l'OCSE, nel comitato per la politica economica, dal 2008 al 2011 è Segretario generale dell'International Economic Association.

    Dal 2018 al 2021 è stato Vice Presidente di Cassa Depositi e Prestiti.

     

    Professore, ci regala una sua opinione sul PNRR e sulla sua ‘attuazione’ in Italia?

    La mia convinzione è che ci troviamo di fronte ad un progetto irrinunciabile e di grande importanza per lo sviluppo del Paese, che non indica, tuttavia, in maniera esplicita, la visione organica che deve presiedere all’integrazione tra i singoli progetti che sono stati selezionati. L’occasione della centralizzazione dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con quelli del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e con quelli del REPowerEU in materia di energia sicura, sostenibile e a prezzi accessibili per l’Europa, offre l’occasione per una revisione che metta in chiaro gli aspetti strutturali del progetto.

    Le nuove stime sulla crescita e sulla riduzione del debito pubblico ci autorizzano a ben sperare?

    Abbiamo di fronte, come suggerisce il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un percorso che per l’economia mondiale si presenta poco dinamico, con una tendenza alla stazionarietà degli investimenti. Anche per questo motivo, il ruolo del PNRR è centrale.

    Sulla crisi economica ancora in corso in Occidente ha inciso di più la pandemia o la guerra in Ucraina?

    Credo che dobbiamo risalire alla crisi del 2008, la prima occasione in cui si è verificata una caduta significativa degli investimenti negli Stati Uniti e in Europa, per trovare un filo di continuità nell’andamento stazionario dell’economia, che da quel momento è diventata una tendenza e che è ancora in atto. La guerra in Ucraina ha aggiunto a questo quadro un cambiamento importante nella struttura degli scambi commerciali e finanziari tra le grandi aree del mondo, creando, di fatto, blocchi contrapposti, che non sono di certo funzionali allo sviluppo globale.

    Relativamente a questa fase storica, ritiene plausibile parlare di una stabile finanziarizzazione dell’economia mondiale?

    Anche per gli aspetti finanziari è in corso una contrapposizione tra il blocco occidentale e quello rappresentato da Cina, Russia e da una parte dei Paesi emergenti, che hanno da tempo avviato processi di integrazione tra loro, attraverso accordi commerciali e finanziari. Questi ultimi stanno assumendo un ruolo crescente, in conseguenza della volontà, espressa da Cina e Russia, di creare rapporti di scambio non più basati sul dollaro. Si tratta, tuttavia, di un processo lungo e dagli esiti incerti.

    A quale modello di economia reale bisogna invece guardare, secondo lei, per uscire dalla crisi?

    Ipotizzarlo oggi è difficile, ma dovremmo puntare su un aumento della cooperazione internazionale, fondamentale anche per scongiurare la prevalenza dei soli aspetti finanziari.

    E l’Europa, in particolare, quali contromisure dovrebbe adottare?

    L’Europa si sta muovendo con decisione su vari fronti, come dimostrano le scelte in materia di politiche industriali riguardanti i microchips, e, in generale, le materie prime sensibili. Tali orientamenti nascono dalla consapevolezza raggiunta in merito al rallentamento della produttività, che ha messo l’Europa dinanzi ad un problema di ritardo competitivo nei confronti del resto del mondo.

     

    Si è passati forse da un primato assoluto della politica a una sua subalternità alla finanza?

    Nel caso dell’Europa siamo di fronte soprattutto a una modifica dei rapporti tra Stato e Mercato, conseguenza della presa d’atto della crisi del 2018, della pandemia e della guerra in Ucraina. Gli Stati nazionali intervengono di più rispetto al recente passato, come è previsto, ad esempio, dal programma recente di politica industriale europea, che consente un allentamento delle regole in materia di aiuti di stato. Questo cambiamento in materia di politica economica fa nascere questioni controverse circa gli effetti che ne possono derivare, sia per il rischio di un ulteriore aumento delle disuguaglianze, sia per le crescenti difficoltà che potrebbero presentarsi nel coniugare Stato sociale ed Economia.
    Il dibattito è in corso. Quello che è certo è che in questa fase non si può rinunciare a fare scelte che favoriscano meccanismi innovativi all’interno del processo economico. Allo stesso tempo, si deve prendere atto dell’invecchiamento crescente della popolazione europea e dell’esigenza di guardare al fenomeno dell’immigrazione con occhi diversi da quelli del passato. C’è infatti un rapporto stretto tra popolazione residente, occupazione e crescita, che non va mai dimenticato.

     

    Cosa butta a mare della costruzione comunitaria e cosa ritiene debba essere, invece, solo migliorato?

    Molto si può fare per migliorare il funzionamento dell’Unione Europea, a partire dal meccanismo decisionale, spesso troppo rallentato dal principio dell’unanimità. Bisognerebbe inoltre aggiungere alle competenze dell’Unione quella dell’offerta di beni pubblici europei, a cominciare da salute, scuola e formazione. Lo chiedono con forza crescente gli stessi cittadini europei.

    In materia di politiche energetiche, se la sente di dare alcuni consigli mirati all’attuale Governo italiano?

    Mi sembra importante che il nostro Governo definisca, con un piano energetico, il sentiero che intende percorrere, i suoi modi e i suoi tempi. Va certamente confermata la spinta a favore delle energie rinnovabili. Al tempo stesso, è necessario, per il medio periodo, rendere disponibili le quantità di gas ritenute necessarie fino al momento programmato di abbandono delle fonti fossili. Da questo punto di vista, può essere importante avere disponibilità sufficienti di LNG (Liquid Natural Gas).
    Indispensabile è anche definire scelte congrue in merito alla domanda di energia, rispetto all’offerta disponibile. In quest’ambito va tenuto presente che l’energia consumata si divide, principalmente, in un 30% da destinare all’industria, un 30% ai trasporti e un 30% agli edifici. Lo spostamento verso l’elettrico del consumo di energia negli edifici e nell’industria renderebbe ovviamente più chiara la transizione che il Governo intende realizzare.
    La scelta di prospettiva europea sull’auto elettrica offre infine una chiara indicazione, al netto delle differenze di opinione espresse sull’argomento, di una decisione che ormai è definita, con l’accordo di tutti i Paesi.

     

    Come giudica la proposta di riforma fiscale al centro del dibattito politico?
    Ritengo che su questo si sia espresso il Parlamento, con un atteggiamento convergente tra maggioranza e opposizione, nella Commissione che ha redatto il testo, oggi all’attenzione del dibattito pubblico. Non credo sia possibile dare un giudizio fino a quando non saranno conosciuti, oltre ai principi generali, anche quelli che stanno a fondamento di tutte le questioni presentate nella proposta del Governo. Va aggiunto un punto, che è legato all’importanza della riforma fiscale e di quella del bilancio pubblico. Non bisogna infatti dimenticare che contano molto le risorse dedicate ai servizi pubblici e alla loro disponibilità per tutti i cittadini. Scuola, salute, sanità e trasporti sono importanti quanto la riforma fiscale nel definire l’equità sociale.

    E quella della giustizia, certamente non priva di risvolti economici?

    La riforma della giustizia è una priorità, che riguarda non solo il cittadino, nei suoi rapporti con il corpo sociale, ma anche le imprese, che devono poter contare su tempi brevi e sulla certezza del diritto come condizione essenziale per lo stesso agire economico.

    Il ‘suo’ ormai pluridecennale ciclo di seminari internazionali a Villa Mondragone, sui Castelli Romani, ha coinvolto tanti Premi Nobel e illustri economisti. Quale incidenza ha avuto sull’economia teorica e applicata nel nostro Paese?

    Abbiamo tracciato, lo scorso anno, una sorta di bilancio scientifico e siamo arrivati alla conclusione che è stato particolarmente fruttifero l’impegno sulla questione dello sviluppo ‘endogeno’. Il Premio Nobel Phelps ha sottolineato come questo sia un tema centrale per l’attività economica, ricordandone l’importanza in un suo recente volume, che quest’anno presenterà a Villa Mondragone.

    E il ‘Revitalizing Anaemic Europe’, altra sua prestigiosa creatura?

    Il progetto nasce dalla constatazione che, anziché esercitarsi soltanto in una critica permanente sull’Europa, sia importante contribuire al miglioramento della sua ‘governance’, sia monetaria, sia fiscale. Il ‘Gruppo dei 20’, che ha portato avanti questo progetto, è fatto non di soli economisti, ma di accademici, managers pubblici e privati e di esperti internazionali, indipendenti dalla politica. Tutti costoro hanno cercato di affermare nei fatti questa volontà che anima il gruppo, con una assai ampia attività di pubblicazioni scientifiche e con numerosi documenti programmatici.

    Andando ancora più indietro negli anni, ci racconta la grande epopea dell’Università di Tor Vergata e della sua Facoltà di Economia?
    Fu una scelta difficile, perché la Facoltà di Economia non era prevista dallo Statuto dell’Università. Arrivai come professore di economia politica nella facoltà di giurisprudenza e mi resi subito conto che la grande novità rappresentata dalla seconda università di Roma non poteva mancare di esprimersi anche attraverso la fondazione di una facoltà di economia. Nonostante le difficoltà istituzionali e finanziarie (non erano previste risorse per le strutture e per il personale docente e amministrativo e neanche per l'acquisizione del materiale didattico e scientifico necessario), riuscimmo ad andare avanti, realizzando, attraverso un finanziamento del Fondo investimento e occupazione, la struttura che oggi ospita i circa mille studenti che si iscrivono ai corsi ogni anno.
    La scelta decisiva fu quella di puntare su un nuovo modello di istituzione, caratterizzato dalla grande attenzione alla capacità di formare giovani sui temi emergenti dell’economia, con la capacità di applicarsi alle scelte da fare sia nelle aziende sia nelle pubbliche amministrazioni. In quest’ottica, fu molto importante essere partiti in contemporanea con i seminari di Villa Mondragone, che hanno rappresentato un modo per realizzare quell’internazionalizzazione degli studi che ritenevo e ritengo, ancora oggi, fondamentale. Il patrimonio di idee e di competenze scientifiche e gestionali è stato così travasato, anno dopo anno, nei corsi della facoltà.

    L’economia è una disciplina scientifica di carattere matematico, ma fortemente ancorata al mondo umanistico. Forse più di altre deve prediligere un approccio ‘biculturale’?

    In economia oggi è sempre più evidente che l’approccio corretto deve essere attento anche a discipline apparentemente lontane. Basti pensare alla teoria delle decisioni, che comprende la matematica, l’economia in senso stretto e la sociologia.

    Nella sua formazione, quali maestri in carne e ossa o sui libri mette ai primi posti?

    Ho sempre cercato di guardare ai maestri portatori di idee nuove e l’attività che abbiamo svolto a Tor Vergata lo dimostra, per la presenza di tutti i principali filoni di pensiero all’attenzione dei docenti e dei ricercatori.

    Rubando qualcosa al suo privato, ci confida le passioni di una vita?

    Ho praticato molti sport, ma la vera passione è stata la vela, che mi ha dato ciò che in più può dare il mare, dalla sfida agli elementi, alla possibilità di contemplare il sorgere o il tramonto del sole lontano da terra.

    E il suo rapporto con la natia Genova?

    In questa mia passione per il mare c’è una probabile componente genetica. Provengo, infatti, da una famiglia di gente che ha lavorato sul mare e per il mare.

    Come giudica la tendenza italiana a scegliere spesso i cosiddetti tecnici per la guida dei ministeri economici o di interi governi?

    Credo che quando si assumono persone estranee alla politica nel Governo del Paese, automaticamente per queste cessa, o almeno si appanna, la funzione di tecnici, e prevale quella di politici. In questo senso, la differenziazione tra tecnici e politici mi sembra un tantino oziosa.

    Quali tipi di rapporti possono fruttuosamente instaurarsi tra un economista e un partito politico?

    Il rapporto più genuino è quello che fa nascere visioni e suggerimenti generali, utili alle scelte politiche.

    L’ideologia pesa di più in politica o in economia?

    L’ideologia fa parte di quelle cose che, secondo Keynes, dobbiamo cercare di disboscare negli angoli della nostra mente. Quanto meno serve essere consapevoli del ruolo che l’ideologia ha, tenendola ben distinta dalla ricerca scientifica, che deve essere libera.

    Il nostro secolo sarà asiatico o occidentale?
    Mi auguro sia, come è stato in passato, il risultato di un confronto di visioni e di idee, capace di portare alla reciproca acquisizione dei principali messaggi delle ‘due culture’.

     Bucatini all’amatriciana o trenette al pesto?

    Nello stesso spirito, entrambi. Ma ben distinti tra loro.

    Ettore Zecchino



     

     

     

    Guido Trombetti

    Professore emerito di Analisi Matematica presso l’Università Federico II di Napoli, Guido Trombetti è stato Rettore dello stesso Ateneo dal 2001 al 2010, nonché Presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) dal 2006 al 2008.

    Nel 2003 è Medaglia d’Oro ai Benemeriti della cultura e dell’arte, consegnata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
    Assessore all’Università e alla Ricerca Scientifica dal 2010 e vicepresidente della Regione Campania (dal 2013) al 2015, è autore di numerosi testi scientifici, ma anche di apprezzate opere saggistiche e letterarie. Giornalista pubblicista, è prolifico autore di articoli nei vari ambiti del sapere su quotidiani locali e nazionali.

    Professore, da matematico, quante probabilità ha il Napoli di vincere lo scudetto?

    Da matematico superstizioso non vorrei rispondere. Da matematico senza aggettivi mi costringe ad ammettere almeno il 90%.

    Alla matematica si può approcciare con serietà anche attraverso il gioco, come la storia dell’uomo dimostra inequivocabilmente. Ci può invece ricordare il suo esordio ‘serio’ con il celebre maestro Carlo Miranda?

    Ho avuto la fortuna di dare ben tre esami con il professore Miranda (Analisi Matematica 1 e 2 e Matematiche superiori). In più, ho discusso con lui la tesi di laurea, dalla quale scaturirono i miei primi lavori scientifici sulle equazioni a derivate parziali, uno dei grandi strumenti per modellare la realtà fisica.

    Eppure, poteva essere un ingegnere?

    In effetti, mi ero iscritto ad Ingegneria, ma dopo un anno ho cambiato, sedotto dalla matematica pura.

    Quale ricordo ha della sua adolescenza e giovinezza pre-lavorativa?

    Sono ricordi ormai avvolti in una nebulosa. Certamente ho grande nostalgia del periodo in cui giocavo a calcio con una squadretta del Vomero, come centrale difensivo. Ma anche del mio passato in atletica, con le vittorie nella corsa veloce a livello provinciale. O delle letture compulsive e dei tanti cineforum. Poi, dopo la prematura morte di mio padre, cambiò tutto. Mio fratello e mia sorella erano infatti più piccoli di me e avvertii subito la responsabilità del capo-famiglia. Da quel momento mi dedicai quasi esclusivamente allo studio, anche se ho giocato a calcetto fino a 50 anni e oltre.

    Forse in quegli anni è nata in lei la curiosità dell’intellettuale a tutto tondo?

    Amo dire che non faccio bene niente perché mi piace troppo fare tutto. E non la consideri un’espressione di falsa modestia.

    Tornando alla matematica, può indicarci i suoi maggiori successi e le linee guida del suo impegno professionale?

    Il periodo più fecondo e intenso fu quello trascorso a Parigi, tra la fine degli anni ‘70 e i primi ‘80, quando collaborai con Pierre Louis Lions, futura Medaglia Fields, occupandomi di problemi di ottimizzazione.

    E’ più facile per un grande matematico essere contemporaneamente un buon umanista rispetto al caso inverso?

    Direi di no. La cultura è una e si nutre di curiosità, che non conosce confini.

    L’uomo ha imparato prima a scrivere o a far di conto?

    Secondo me a far di conto, perché contare le pecore era una necessità, come contare i nemici. La scrittura è stata invece a lungo preceduta e ben sostituita dalla tradizione orale.

    Dopo la rivoluzione del linguaggio, la rivoluzione dei numeri può essere considerata la più importante nella storia dell’uomo?

    Direi di no. Il linguaggio è ovviamente alla base di tutto, ma la seconda più grande rivoluzione di sempre è quella informatica, che abbiamo avuto la fortuna di intercettare in questi anni, e che, secondo me, ha inciso e inciderà più della stessa scrittura, cambiando i paradigmi espressivi, e, in prospettiva, anche il lavoro degli storici. Tutto questo è molto affascinante, come lo è notare la naturalezza di approccio a questo nuovo mondo da parte dei nativi digitali.

    La matematica è stata scoperta o inventata?

    Secondo la visione platonica, che faccio mia, le idee già esistono, vanno solo scovate. Una visione che va estesa a tutte le scienze. Il problema è indossare gli occhiali adatti.

    La si può definire come la regina delle scienze, o, piuttosto, come un imprescindibile paradigma di conoscenza a vantaggio di tutte le discipline scientifiche, e, probabilmente, non solo di quelle?

    La matematica è entrambe le cose, caratterizzandosi come una scienza autonoma, ma, all’occorrenza, anche come una scienza di servizio. Oggi si avverte un’esigenza enorme di conoscenza matematica, per altro alle origini di tante scoperte scientifiche negli ambiti più disparati. Per Marconi, quando si produce conoscenza non bisogna chiedersi mai a quale scopo farlo. In altro senso, secoli prima, Galileo aveva detto che il linguaggio della natura è la matematica.

    Come mai i fisici sono stati più protagonisti dei matematici nell’interpretare i dati del COVID?
    I fisici hanno un talento che li porta a uno studio più diretto dei fenomeni naturali e si giovano, spesso, di un’immediata forza divulgativa, che la matematica non possiede. Non credo, tuttavia, che in questo caso i matematici siano stati ‘scavalcati’. E comunque, non ci può essere buona fisica senza una robusta base matematica.

    La matematica, a certi livelli e in certi ambiti, diventa filosofia?

    I fondamenti e le basi logiche della matematica impattano direttamente nell’ambito della filosofia. Mi fermerei a questo livello.

    I sommi matematici nella storia occidentale secondo lei?
    I grandi dell’Ottocento, come Georg Cantor e Bernhard Riemann.

    E Pitagora, Euclide?
    Euclide è stato un pilastro plurisecolare della geometria, un gigante che ha costruito un modello ipotetico deduttivo imprescindibile. Pitagora, tra le tante scoperte attribuitegli, ha posto le basi per mettere in crisi l’idea che tutti i numeri fossero frazioni. Con conseguenze straordinarie per l’umanità.

    Quanta matematica c’è stata nel suo percorso di crescita spirituale?
    La matematica per me è stato un incontro fondamentale. Mi ha aiutato moltissimo a ‘gestire’ il conflitto che ha attraversato la mia vita tra la costante ricerca della razionalità e la constatazione dell’irrazionalità di buona parte dell’umano.

    Dove si può trovare il ‘bello’ nella sua disciplina?

    Il bello non si misura. La bellezza in matematica esiste, ma a un livello assolutamente personale. Come quella di un quadro, di un incontro. A pensarci bene, spesso è impossibile definire la bellezza, eppure Einstein diceva che quando una teoria diventa bella vuol dire che ci si sta avvicinando alla soluzione del problema affrontato.

    Da qualche anno il Trombetti umanista sta emergendo prepotentemente nello scenario culturale, non solo campano. Come è nata questa voglia di narrare?

    In realtà ho sempre scritto tanto. In un certo momento della vita ho semplicemente cominciato a pubblicare. Tutto parte dal desiderio di comunicare. Per me, infatti, scrivere è uno dei modi possibili per comunicare con gli altri.

    L’opera letteraria più matematica nella storia?
    Secondo me, la Divina Commedia, densa com’è di suggestioni matematiche, al di là dei suoi aspetti puramente numerologici. Finanche rispetto al concetto dell’ineffabilità del divino, con la metafora della quadratura del cerchio, Dante si rivolge alla matematica. Più in generale, possiamo dire che l’intera architettura della Divina Commedia è matematica. Bisogna tuttavia precisare che la matematica è diffusa molto più di quanto si pensi in letteratura. Basti pensare a Borges, Calvino, Buzzati.

    Il suo libro non scientifico di maggiore successo?

    Quello al quale sono più affezionato è il primo (‘Quando meno te lo aspetti’), che ripercorre la vita di cinque ragazzi, presi alle scuole elementari e seguiti fino all’età adulta.

    Nella sua vita grande spazio ha avuto anche la politica. E’ stato più difficile fare il presidente della CRUI o il vicepresidente della Regione?

    Sono due cose completamente diverse. In ogni caso considero quella della politica un’esperienza limitata nel tempo e auto-contenuta. Mi sono confrontato con iniziative di ampio spettro e ho molto allargato le mie conoscenze, anche in ambito umano. Sono contento dell’esperienza, vissuta comunque da tecnico, ma non la ripeterei. Nella vita c'’è un tempo per tutte le cose.
    E il Trombetti privato quali svaghi si concede?

    Le mie grandi passioni sono la letteratura, e il cinema, consumati entrambi in maniera compulsiva e disorganica. Amo sempre il racconto e la commedia umana. Per questo adoro Balzac, Maupassant o i grandi scrittori russi. Quanto al cinema, per la stessa ragione, spazio da John Ford a Franck Capra, fino a Martin Scorsese e Woody Allen. Senza dimenticare i grandi italiani, come De Sica, Rossellini e Fellini, fino a Francesco Rosi e a Nanni Moretti, di cui mi considero un fan della prima ora.

    I suoi luoghi del cuore?

    Ovviamente Napoli, di cui riconosco le tante criticità, ma che non cambierei per nessuna città al mondo. E poi Procida, perché è un luogo dove la dimensione umana è sempre destinata a prevalere.

    Passioni enogastronomiche?

    Molti cavalli di battaglia della tradizione partenopea, a partire dalla pasta, nelle svariate ricette che Napoli offre, e dalla straordinaria pizza. Non mi appassionano, invece, le alchimie di tanti maestri della cucina. Allo stesso modo, apprezzo molto i vini campani. Su tutti, quelli di Quintodecimo, del professore Luigi Moio, da me stimatissimo.

    Un suo ricordo di Biogem?
    Lo lego indissolubilmente a quello del suo fondatore e attuale presidente, Ortensio Zecchino. A mio parere, il migliore ministro dell’Università e della Ricerca.


    Ettore Zecchino

    Cosimo Risi

    Laureato in Scienze Politiche all’Università di Napoli Federico II, è in carriera diplomatica fino al 2016. Copre vari incarichi alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles. Da ultimo è Ambasciatore e Rappresentante permanente presso la Conferenza del Disarmo a Ginevra e Ambasciatore presso la Confederazione Elvetica e il Principato di Lichtenstein, a Berna. Insegna Relazioni internazionali al Diploma Alti Studi Europei presso il Collegio Europeo di Parma e Politiche europee per la ricerca e l’innovazione presso l’Università di Napoli Federico II. Professore ospite in vari atenei, è Commendatore al merito della Repubblica italiana e commentatore di affari esteri per varie testate.

    Ambasciatore, come è iniziato il 2023 in politica internazionale?
    Come è finito il precedente. La guerra in Ucraina si avvia a compiere il  primo anno di vita e non sembra destinata a un epilogo immediato. Al momento, per dirla tutta, la mediazione in campo più significativa è quella turca, ma i contendenti sembrano bloccati su posizioni intransigenti.
    Una novità importante si segnala in Israele, con Benjamin Netanyahu rieletto a capo di un Governo spostato più a destra, con presenze, al suo interno, di partiti rientranti nella galassia dell’estremismo religioso.
    Non meno preoccupante è la crescita della repressione in Iran, dove, proprio in queste prime settimane dell’anno, sono aumentati i processi sommari e le esecuzioni senza possibilità di appello. Sorte toccata anche a un ex Sottosegretario alla Difesa, cittadino iraniano e britannico.
    Complessivamente,  il panorama non è dei migliori.

    E cosa si prospetta di importante nei prossimi mesi?

    Si spera nel decollo di un negoziato serio per la guerra in Ucraina. Al momento Kiev chiede di tornare ai confini antecedenti febbraio 2022. I Russi ammoniscono di tenere conto dei nuovi assetti determinati dal conflitto. La diplomazia è impegnata a trovare una soluzione di compromesso, mentre la politica si biforca nel presenzialismo sempre più spinto di Volodymyr Zelens'ky e Signora e l’enigmatica chiusura, in un ostentato isolamento, di Vladimir Putin.

    Quale ruolo potrà e/o dovrà avere il nostro Paese?

    Il Governo, accreditato di una tendenza filo-russa, si mostra invece in linea con il precedente, continuando a sostenere la resistenza ucraina, nel quadro di una politica comune dell’Occidente.
    Il nostro ruolo in ambito internazionale si caratterizza prevalentemente nel quadro europeo, dove cerchiamo di far avanzare alcuni nostri interessi in materia energetica e industriale. Dobbiamo puntare, ad esempio, a rendere il modello di Next Generation EU un caso non isolato. Senza dimenticare i problemi tutt’altro che risolti, di una immigrazione incontrollata verso le nostre coste. Una ragione in più per provare a recitare un ruolo da co-protagonista, in passato spesso avuto, nell’area mediterranea.

    Il mondo verde, tema principale delle Due Culture 2023, è sempre più in pericolo. Crede che azioni in sua difesa, già in agenda nei programmi delle principali istituzioni internazionali, siano concretamente possibili nei prossimi mesi?

    Sono possibili e soprattutto doverose. Bene fa Biogem a dedicare il meeting le ‘Due Culture’ del 2023 indirettamente anche a questo tema. La situazione generale è tra l’altro peggiorata ulteriormente proprio a causa della guerra in Ucraina, che ha determinato il ritorno, sia pure parziale, al carbone, come conseguenza della crisi energetica in corso, aggravata dalla riduzione e dal blocco delle forniture di gas provenienti dalla Russia di Putin.

    E riguardo alla pandemia, non del tutto sganciata dal grande tema della tutela dell’ambiente, quali contromisure significative sta approntando l’Organizzazione Mondiale della Sanità?

    L’OMS sta evidenziando che la pandemia ha una coda lunga, soprattutto nei luoghi da dove è partita (Cina), e che, quindi, non va minimamente sottovalutata. Un secondo allarme riguarda la previsione di nuove pandemie nel futuro più o meno prossimo. Su tutte, quella generata dalla crescente resistenza batterica agli antibiotici.

    Ritiene che l’OMS debba cambiare assetto? E, in ogni caso, quale giudizio si sente di esprimere sul suo operato in era pandemica?

    Non sono un esperto della materia e quindi non azzardo giudizi netti. Inizialmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata tacciata di partigianeria nei confronti della Cina e su questo non sono in grado di pronunciarmi. Direi comunque che l’OMS ha un organigramma insufficiente e grandi difficoltà operative. Il suo ruolo, attualmente, è soprattutto quello di dare direttive e indicazioni agli Stati membri e ad altre organizzazioni internazionali.

    Quali Stati hanno reagito meglio all’aggressione del COVID-19?
    Sul fronte europeo, l’Italia si è mossa con una certa tempestività nell’attuare misure precauzionali e, successivamente, nel portare avanti campagne vaccinali di successo. Altri Paesi hanno inizialmente sottovalutato il problema. Basti ricordare il discorso, poi rettificato, del Premier britannico Boris Johnson, sull’inevitabilità di una immunità di gregge da raggiungere con un certo numero di vittime sul campo.
    Ha reagito bene l’Unione Europea, soprattutto grazie all’intuizione di centralizzare l’acquisto e la distribuzione dei vaccini.

    Per l’Europa sarà più gravido di conseguenze storiche il lungo periodo pandemico o quello bellico, che si avvia ad essere altrettanto duraturo?

    La pandemia ci ha segnato dal punto di vista dei comportamenti. L’Europa si è caratterizzata nella storia recente come il luogo delle libertà individuali e le ripetute chiusure hanno determinato una sorta di shock psicologico, particolarmente significativo per i più giovani.
    La guerra in Ucraina è invece responsabile di uno shock politico e militare, determinato dal fatto che per la prima volta dopo la seconda Guerra Mondiale, l’Europa, non esente in passato da feroci conflitti regionali, è oggi al centro di un conflitto che vede protagonista una superpotenza mondiale. Ne è nato uno scossone all’ordine internazionale, che ha spinto l’Occidente nel suo insieme a reagire. La minaccia all’Ucraina è stata percepita come indirettamente rivolta a noi stessi.

    L’Ucraina entrerà nella NATO e nell’UE?

    Nella NATO mi sembra poco probabile, almeno per ora, come ammesso a mezza bocca dalla stessa Ucraina. Un simile passo sarebbe infatti considerato dalla Russia come una provocazione inaccettabile.
    Per quanto riguarda l’adesione all’Unione Europea, c’è stata indubbiamente un’accelerazione degli eventi. I negoziati di adesione prevedono un percorso che richiede tempi lunghi e l’unanimità dei Ventisette in tutte le fasi, dall’avvio alla conclusione dei negoziati. A Trattato costante, l’Ucraina dovrà ragionevolmente aspettare qualche anno.

    Il primo quarto di millennio, nonostante evidenti arretramenti, può dirsi ancora americano. Sarà così anche per gli altri tre?

    Gli Stati Uniti hanno il potenziale per resistere e prosperare, grazie alla loro inventiva e alla riconosciuta capacità di assorbire il meglio dagli altri Paesi. Direi quindi di si, anche se dovranno  accettare una qualche forma di condominio.

    I problemi maggiori per gli equilibri occidentali arrivano dalla Cina, dalla Russia, dal ‘solito’ Medio Oriente o dall’emergente Africa?

    Per gli Usa il problema numero uno è la Cina, con la quale è in corso una fortissima competizione economica e tecnologica, con preoccupanti momenti di tensione. Si pensi a Taiwan.  Segue quello, attualissimo, della Russia. Poi quello, ‘endemico’, del Medio Oriente, erroneamente circoscritto alle problematiche connesse alla nascita e all’ascesa dello Stato d’Israele, e del Mediterraneo allargato fino al Golfo.
    L’Africa costituisce un serio problema per lo squilibrio tra la sua imponente crescita demografica e il modesto sviluppo economico. Le ricorrenti ondate migratorie che colpiscono l’Europa sono la conseguenza più vistosa di questa situazione.

    E la ‘sonnacchiosa’ India?

    L’India è una sorta di mistero. Ha infatti una popolazione pari a quella della Cina, con prospettive di superamento, ma i grossi problemi che la affliggono la inducono a tenere un profilo basso. Una condizione che potrebbe non durare a lungo.

    Quali doti deve avere un buon diplomatico?

    La principale dote è proprio la diplomazia, intesa come l’attitudine a prestare la giusta attenzione agli argomenti dell’interlocutore. Obiettivo del diplomatico è infatti arrivare a un’intesa per via di compromesso. La capacità di ascolto e, quindi, la comprensione piena degli argomenti e dei livelli di disponibilità alla trattativa della controparte, sono presupposti indispensabili per raggiungere lo scopo. Un diplomatico deve avere una buona cultura generale, un’apertura mentale che lo porti a bandire l’integralismo e il manicheismo.

    Quali Stati possono contare sulle più importanti tradizioni in materia?

    L’Italia, con la Serenissima Repubblica di Venezia, e prima ancora con i Romani, ha ‘inventato’ la diplomazia. Nella mia esperienza ho sempre trovato esemplare, per la sua capillarità, la diplomazia vaticana, capace di ‘leggere’ il mondo, pur non essendo dotata di un numero elevato di diplomatici di professione. Anche quella britannica, erede della lunga stagione imperiale del Regno Unito, mi ha sempre impressionato positivamente. Come, all’opposto, la piccola e giovane, ma determinatissima diplomazia israeliana. Non ho invece una grande opinione di quella americana, pur sorretta da mezzi straordinari.

    Ci può rivelare i nomi di due grandi diplomatici della storia e di un suo personale punto di riferimento professionale?

    Per fermarci al nostro secolo, citerei Paolo Ducci, un diplomatico di grandi visioni e luminosa carriera, tra i protagonisti della stesura dei Trattati di Roma. Un gigante ancora in vita è lo statunitense Henry Kissinger, inizialmente un professore prestato alla diplomazia e alla politica conservatrice, oggi ascoltatissimo anche dai Democratici.
    Quanto alle mie esperienze dirette, ho cominciato la mia carriera con Renato Ruggiero, un diplomatico dalle brillantissime capacità operative e un maestro di grande statura umana e professionale, premiato, a fine carriera, anche con la nomina, da tecnico, a Ministro degli Esteri.

    Ritiene auspicabile che la ‘diplomazia’ diventi materia di insegnamento scolastico?

    Più che la diplomazia auspico che lo diventi lo studio delle relazioni internazionali. Bisogna spiegare agli studenti quanto e come il mondo sia interconnesso. Per suscitare in loro la curiosità per i fatti del mondo.

    Quali margini di autonomia un Ambasciatore ha rispetto al suo Ministro degli Esteri?

    La risposta si deve cercare nella prassi. Ai diplomatici italiani, ad esempio, viene generalmente lasciato un ampio margine di azione, all’interno di parametri ben precisi. A volte la catena di comando è lenta e il diplomatico deve arrangiarsi. La comunicazione tra Governo italiano e ambasciate non sempre è diretta.

    E quale rapporto si ha con il mondo dei servizi segreti?

    Quasi naturale, più o meno intenso in relazione all’importanza strategica della sede diplomatica.

    Preferisce il sistema di reclutamento dei diplomatici statunitense o quello europeo?

    Quello europeo non è esattamente uniforme. Un progetto di riforma in Francia prevede, ad esempio, la nomina politica degli ambasciatori, con le conseguenti proteste dei diplomatici professionali. In Italia abbiamo avuto casi sporadici di ambasciatori non di professione, circoscritti, per lo più, al periodo post-bellico, anche a causa della oggettiva carenza di diplomatici non compromessi con il Regime. Un’eccezione è stata la recente nomina, da parte del Governo Renzi, di Carlo Calenda come Rappresentante Permanente presso l’Unione Europea a Bruxelles. Il suo incarico durò molto poco: a dimostrare quanto la nomina fosse stata frettolosa. Al sistema professionale e al livello di competenza che dovrebbe garantire vanno senza dubbio le mie preferenze.

    L’ambasciata italiana più ambita?
    Quella di Washington, la capitale dell’’Impero’.

    E quella più bella?

    Probabilmente Parigi, anche per la vita spumeggiante che promette.

    Una sua graduatoria delle cucine nelle grandi ambasciate del mondo?

    Bisognerebbe averle provate tutte! In realtà spesso nelle ambasciate si ricorre a una cucina internazionale, fruibile da tutti e perciò standardizzata. La cucina italiana è apprezzatissima ed è una delle carte a nostra disposizione, non sempre viene presentata in tutta la sua tipicità.

    Percentualmente quanti accordi si realizzano a valle di una buona cena?

    La cena, in linguaggio diplomatico si dice pranzo o dineur alla francese, serve a creare un rapporto informale per favorire o corroborare un’intesa. Un accordo non si conclude mai a tavola, necessita di processi più lunghi. Le spese di rappresentanza a favore dei diplomatici in servizio all’estero servono proprio all’attività conviviale.

    Il mestiere della diplomazia è spesso invidiato. Quali inconvenienti presenta?

    Il più significativo è l’essere sempre in viaggio e in trasferimento, anche in Paesi scomodi. I divorzi nel nostro mondo sono percentualmente superiori alla media proprio perché, nella maggioranza dei casi, le famiglie rischiano di sgretolarsi e disunirsi a causa della distanza tra i loro membri. La costante riduzione del bilancio della Farnesina sta causando un vulnus al funzionamento delle sedi, la cui manutenzione è sempre meno efficiente. Stanno quasi scomparendo le spese per le  missioni brevi, si privano i giovani diplomatici di occasioni per formarsi  sul campo.

    Quali opere in tutte le arti hanno meglio descritto la vita in ambasciata?

    Focalizzandoci sulla letteratura e limitandoci alla mia esperienza personale, i romanzi di Roger Peyrefitte, belli ma datati, hanno acceso la mia fantasia. Mi viene infine in mente un romanzo di spionaggio, Il Sarto di Panama di John le Carrè: un graffiante e ironico ritratto della vita in una sede periferica del Regno Unito. Vale come metafora del mondo delle Ambasciate e dell’intreccio, di cui sopra, fra diplomazia e Servizi.

     


    Ettore Zecchino

     

     

     

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