I protagonisti delle due culture

    Mario Panizza

    Mario Panizza

    Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana, Mario Panizza è stato Rettore dell’Università degli Studi ‘Roma Tre’ dal giugno 2013 allo stesso mese del 2017. La sua attività di ricerca ha riguardato soprattutto lo studio comparato tra i caratteri degli edifici e i tessuti urbani consolidati, significativi dal punto di vista dell’interesse storico-architettonico. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, dal 2019 collabora alla ‘Terza Pagina’ del quotidiano ‘l’Osservatore Romano’.

     

    Professore, è ‘nato’ architetto o lo è diventato per qualche specifico episodio biografico?

    L’architettura è stata la mia passione sin da ragazzo, probabilmente anche per una mia particolare attitudine per il disegno che, forse erroneamente, consideravo la caratteristica principale di un architetto. Dopo i primi anni di studi universitari questa convinzione si è molto attenuata. La passione, al contrario, si è accentuata e continua ad accompagnarmi.

     

    Generalmente, la fascinazione dei non addetti ai lavori per un architetto è incomparabilmente superiore a quella per un ingegnere. Ci descrive qualche eccezione?

    Di questo assunto, in realtà, sono convinto solo fino a un certo punto. Si tratta, forse, di una fascinazione di ‘primo livello’. Andando più a fondo, le sensazioni cambiano. Il grande costruttore di ponti, ad esempio, è una delle figure più apprezzate e omaggiate. D’altra parte, il ponte più bello è quello che non cade e il compito principale dell’ingegnere è proprio quello di preservarci da questa drammatica eventualità.
    Citando Vitruvio, l’utilitas (la funzionalità), la firmitas (la solidità statica) e la venustas (la bellezza estetica) devono essere presenti sia in un’opera di architettura sia in un progetto ingegneristico; ma le prime due sono assolutamente imprescindibili. L’attenzione alle ricadute sociali dell’architettura è sempre stata la mia stella polare.

    Può una buona architettura essere insensibile al dato estetico?

    Certamente no, anche se bisogna intendersi sul significato di queste parole. Secondo me, ad esempio, la qualità estetica di un’opera architettonica si misura attraverso la sua capacità di inserimento nell’ambiente circostante, soprattutto in relazione al periodo storico in cui è realizzata. Certo, essa può anche essere assertiva e dissonante, ma deve sempre saper dialogare con ciò che le sta intorno. Il valore estetico di un’opera di architettura è infatti in strettissima relazione con la sua capacità comunicativa, con la sua capacità di parlare da sé e di sé, anche quando non esprime una mimesi armonica con l’ambiente che la circonda.  Comunque, un’opera architettonica non può essere solo funzionale. Chi la utilizza deve sentirsi spinto a preservarla, a conservarla proprio per ciò che esprime, compresa la sua bellezza.


    Il percorso di studi più adatto agli ingegneri e agli architetti?

    Quando mi sono laureato, il percorso era quinquennale. Gli ingegneri avevano un biennio molto teorico e un successivo triennio, durante il quale, gradualmente, cominciavano ad applicare in concreto quanto precedentemente appreso. Gli architetti, al contrario, erano indotti a progettare sin dai primi anni. Gli attuali corsi di studio prevedono, per entrambi, un triennio generalista e un biennio specialistico. Credo sia un percorso abbastanza sano. La differenza sostanziale, sia pur meno evidente rispetto al sistema precedente, rimane la presenza di studi teorici più approfonditi e permanenti per gli ingegneri.

    Quanto al percorso scolastico pre-universitario, direi che fondamentale è acquisire un metodo di studio. Personalmente, pur avendo compiuto studi classici e quindi con conoscenze di settore alquanto limitate, mi sono trovato sempre bene all’Università. Un ruolo cruciale credo lo svolgano discipline apparentemente lontane dalla nostra formazione, come la filosofia, in grado di allenarci alla costruzione del pensiero.

    L’Italia è tra le grandi patrie dell’architettura e, probabilmente, la patria per eccellenza della pittura, una sua grande passione, ultimamente sempre più praticata. Si sente un arcitaliano?

    Ho sempre aspirato a diventare un cittadino del mondo. Anche per questo ho cercato di viaggiare tanto e di apprendere nuove cose, da punti di vista sempre differenti.

    L’insegnamento dell’architettura in Italia come si colloca, mediamente, nelle graduatorie mondiali?

    Non bene, come testimoniato anche dal fatto che gli studenti italiani cercano spesso di trasferirsi all’estero per la laurea specialistica. In quei contesti ci sono infatti più mezzi e, soprattutto più vitalità architettonica, sperimentale e realizzativa. Nel centro di Parigi, o di Londra, per non parlare di Melbourne, si vedono tanti cantieri all’opera. Nel nostro Paese, qualche gru si vede uscendo dalla stazione di Milano.

    Quali sono le riconosciute eccellenze?

    Direi lo IUAV di Venezia e il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara.

    Nelle ultime settimane sono esplose le proteste studentesche per l’insostenibilità degli affitti. Un tema a lei caro?

    Molto caro. Non a caso, da rettore dell’Università Roma Tre, riuscii a realizzare una Casa dello studente, e, successivamente, mi dimisi per una resistenza interna nello stesso campo. Resistenza a interpretare la sistemazione abitativa dello studente come uno dei capisaldi della sua formazione universitaria, anche in relazione all’inevitabile percorso di uscita dalla famiglia. Certo, in Italia le tasse universitarie sono più basse che altrove, ma le due cose possono restare distinte e convivere. La tanto auspicata interazione tra studenti italiani e stranieri è molto condizionata proprio da questo, dalla mancata soluzione del problema delle residenze.

    Può indicarci i passaggi chiave della sua lunga e prestigiosa carriera accademica?

    Sono stato Ricercatore per ben 21 anni. Poi, piuttosto rapidamente, sono stato ‘promosso’ a Professore Associato e, in breve tempo, a Ordinario. Successivamente, sempre in poco tempo, sono diventato Direttore di Dipartimento, e, infine, Rettore. In parole povere, la metà del mio percorso accademico si è svolto nel ruolo di ‘semplice’ Ricercatore. Ho insegnato sempre architettura sociale e progettazione architettonica.

    E le pubblicazioni scientifiche alle quali è maggiormente legato?

    Sicuramente l’aggiornamento della voce ‘Edilizia scolastica’ nel manuale l’’Architettura pratica’, di Pasquale Carbonara. Poco tempo prima, con la tesi di laurea, mi ero occupato dell’espansione urbanistica di Roma. Il libro che mi ha dato maggiori soddisfazioni, con riconoscimenti anche all’estero, è stato, però, ‘Mister Grattacielo’, con oltre 3mila copie, non male per un testo di architettura. Altri due libri per me importanti sono stati ‘Gli edifici per lo spettacolo’ e ‘Gli edifici per la musica’. Attualmente mi sto dedicando alla raccolta degli articoli scritti, dal 2019 a oggi, per l’’Osservatore Romano’, sotto il titolo ‘Architettura Sociale’, a chiusura di un cerchio di biografia accademica.

    Come è andato il suo personale ‘Giro del mondo in 80 ‘tombini’?

    Molto bene. Ho dipinto tombini, quasi a grandezza naturale, per più di 10 anni. Nei miei viaggi ne ho incontrati tanti. Prima li fotografavo e poi, tornato a casa, li dipingevo. Un ‘gioco’ divertente, forse anche un po' snob: nobilitare a forma d’arte un oggetto di uso quotidiano.

    Ultimamente sta indirizzando la sua attenzione sul ‘nuovissimo’ mondo. Anche in Australia le piazze hanno l’importanza che, sia pur declinante, continuiamo ad attribuire loro in Europa?

    Sì. Basti pensare a quella antistante la baia di Sydney. In generale, le città australiane colpiscono per una non scontata bellezza: dall’eleganza di Sydney e Melbourne all’autenticità di Perth, dove, tra l’altro, si incontra un tombino particolarmente suggestivo che riproduce il disegno aborigeno dell’anno solare diviso in sei stagioni.

    Facendo moltissimi passi indietro, ci può dire quando e dove è nata l’architettura?

    L’architettura moderna è nata con l’Illuminismo, caratterizzata dalla scomparsa degli stili e dalla formazione degli impianti funzionali. Le prime tracce di architettura sono invece ravvisabili nelle modifiche al paesaggio fatte dall’uomo per riuscire a governare il territorio circostante a fini agricoli. Parliamo di oltre 10mila anni fa e di aree del mondo molto distanti, senza alcun contatto reciproco.

    Chi e come ha costruito le gigantesche piramidi egizie in pieno deserto? E le tante altre opere simili nell’antichità?

    Posso solo dire che la piramide ha una valenza eccezionale per l’architetto. Una forza emotiva che si sprigiona sia all’interno, lungo i suoi stretti cunicoli, sia all’esterno, nel corso della sua ascesa, quando, immediata, si vive la sensazione di volare. Mi incuriosisce molto anche la straordinaria capacità degli antichi Romani di costruire città ovunque, nel Mediterraneo e oltre. Un esempio straordinario è la siriana Palmira, in pieno deserto una città romana a tutti gli effetti.

    Quale forma architettonica è sopravvissuta più a lungo nella storia dell’uomo?

    Direi quella dell’antichità classica greca e romana, non a caso rivisitata anche dall’architettura postmoderna.

    I grattacieli sono già concettualmente obsoleti?

    No, anzi, ritengo che siano l’espressione più vitale e autentica della nostra epoca. Fra 400 anni l’Empire State Building di New York potrebbe essere studiato come, oggi, il Partenone di Atene.

    Le sue opere preferite, spalmate in tutte le epoche?

    Il Chrysler Building di New York, la Galleria d’arte Moderna di Berlino, il prototipo della villa palladiana. Andando più indietro, i due teatri classici, sia quello greco, sia quello romano.

    Si può definire il grande architetto come una personalità al confine tra le ‘due culture’?

    Certamente sì. Deve infatti avere salde capacità e competenze scientifiche, ma anche la giusta sensibilità umana, per utilizzarle al meglio a fini sociali.

    Nel suo mondo quanto influisce ora e quanto potrà farlo in futuro l’intelligenza artificiale?

    La computer grafica è già una realtà da anni, ma io uso ancora la matita.

    Un’urbanistica di qualità è spesso viatico di fama e lustro per gli amministratori di un territorio. Come va improntato correttamente un rapporto tra politica e ‘archistar’?

    In due parole, attraverso il controllo della modellistica e degli standard.

    Più prosaicamente, è prevista una formazione specialistica per chi è destinato ai ‘famigerati’, ma fondamentali ‘uffici tecnici urbanistici’ dei vari enti territoriali?

    Ci sono dei master universitari specifici, ma la formazione vera avviene all’interno degli stessi uffici, sempre che ci sia un bravo maestro, carico di esperienza e, soprattutto, generoso nel trasmetterla.

    La coscienza contemporanea può ancora consentire l’abbattimento di opere considerate ‘brutte’, per far posto al nuovo che avanza?

    Il concetto di brutto è molto relativo. Lo sostituirei con quello di inutile, nell’accezione più ampia del termine.

    Le sue archistar del cuore in ogni epoca?

    Andrea Palladio, Le Corbusier, Mies van der Rohe e Alvar Alto.

    Un abbinamento perfetto tra opere musicali e monumenti?

    Alvar Alto e Jean Sibelius. Una perfetta sintesi del romanticismo nordico.

    Venendo alla stretta attualità, ci offre un suo parere in merito alla dibattutissima vicenda del bonus ristrutturazione?

    Non mi ha convinto fino in fondo, anche se qualche aspetto positivo si può rinvenire. Comunque, non ha avuto il respiro di provvedimenti simili del passato, destinati a sostenere l’edilizia (ad esempio il Piano INA Casa).

    E, più in generale, sulla politica italiana in materia negli ultimi decenni?

    Il giudizio non è positivo. Nelle opere pubbliche si è proceduto, infatti, soprattutto con appalti integrati, generando continue revisioni in corso d’opera e adeguamenti progettuali, quasi sempre peggiorativi.

    L’architettura, come ogni attività umana, è imperativamente chiamata a virare sempre più decisamente in direzione ‘green’. Quali linee guida indica in tal senso?

    La svolta green dovrà riguardare principalmente le periferie, dove è possibile ricavare spazi di ‘diradamento urbano’ e inserire nuovi servizi all’interno di condomini e di aree urbane ancora inedificate. Il distanziamento sociale, come ci ha tra l’altro dimostrato la pandemia, offre un potenziale di utilità sociale più ampio delle facciate verdi.

    E quali esempi, sparsi nel mondo, considera imprescindibili?

    Il Piano Urbanistico di Amsterdam, progettato da Hendrik Petrus Berlage, ma anche il Central Park di Manhattan, opera di Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux. Anche in Australia potrei fare molti esempi.

    Le sue passioni fuori dalle arti figurative?

    Andare in giro per il mondo in bicicletta. Amo anche il ciclismo come sport e considero un gran privilegio l’invito ricevuto a seguire, ovviamente in macchina, la tappa del Giro d’Italia con arrivo a Pinerolo, in qualità di ‘rettore ciclista’. Oggi evito le salite, ma continuo a pedalare lungo i fiumi.

    Un suggerimento per migliorare architettonicamente la sede di Biogem?

    Per il momento no. Lasciamola crescere immersa nel verde e vediamo.

     

    Ettore Zecchino


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