I protagonisti delle due culture

    Danilo Breschi

    Professore associato di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), dove insegna Teorie dei conflitti, Fondamenti di politologia ed Elementi di politica internazionale, Danilo Breschi è, tra l’altro, direttore scientifico del semestrale “Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee”. Di recente ha curato e introdotto una nuova edizione della Leggenda del Grande Inquisitore di Fëdor Dostoevskij (2020). Nel 2021 ha pubblicato Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano, scritto in collaborazione con Flavio Felice, e nel 2022 il saggio Da rivoluzionario a conservatore. Giuseppe Prezzolini nell’America di Truman, nonché curato e introdotto gli scritti giornalistici di Ugo Spirito, raccolti in un’antologia critica dal titolo L’avvenire della globalizzazione.

    Professore, dalla sua partecipazione, lo scorso ottobre, alle ‘Due Culture’ di Biogem, il mondo è profondamente cambiato. Come studioso delle ‘teorie dei conflitti’, ci offre il suo punto di vista generale?

    Se guardiamo da un punto di vista davvero globale, il livello di conflittualità del mondo di oggi non è poi così diverso da quello di dieci, venti o trenta anni fa. Pensiamo solo, andando a ritroso, alla Siria, ad Iraq e Afghanistan, infine alle guerre jugoslave, che hanno marchiato a fuoco l’intero ultimo decennio del secolo scorso. Se però guardiamo da un punto di vista europeo, e segnatamente europeo-occidentale, allora il mondo è diventato enormemente più conflittuale. Dal 24 febbraio 2022 la guerra è arrivata alle porte di casa nostra, ricacciando i Paesi dell’Europa occidentale nella storia intesa in senso pienamente hegeliano, quindi catapultati anche in una sorta di immenso mattatoio. Con la lunga parentesi inaugurata nel 1945 e garantita dalla protezione americana, noi europei ci eravamo illusi di poter fare finanche a meno, in un certo senso, della politica. Pareva non verificarsi più alcun conflitto che fosse tale da non poter essere governato con gli strumenti pacifici del diritto, con i regolamenti e le procedure, più o meno corredate di sanzioni. Si trattava di un’illusoria uscita dalla storia, al riparo dai drammi imperversanti nel resto del mondo, dal Medio all’Estremo Oriente fino all’America Latina, passando attraverso la martoriata Africa. Il risveglio non poteva dunque non essere brusco e drammatico. L’Europa è stata ricacciata a forza nel lato oscuro e tragico della storia.

     

    La sua lezione su Dostoevskij è ancora attuale?

    Parliamo non a caso di un classico. Questo grande scrittore russo sarà nostro imprescindibile interlocutore fino a quando ci interrogheremo sui noi stessi, sulla vita e sulla morte, come sul rapporto tra libertà e verità. Insomma, fino a quando esisteremo come esseri umani. Volendola circoscrivere alla politica, la sua opera dovrà essere letta almeno fino a quando l’uomo sarà posto dinanzi ad un bivio capitale, quello tra sicurezza e libertà. Concessa, la prima, dal Grande Inquisitore, con le tre tentazioni dell’autorità, del mistero e del miracolo, l’uomo occidentale potrebbe rivelarsi all’altezza della libertà, per il carico inevitabile di rischi e responsabilità a questa connessi. La stessa crisi innescata dalla pandemia ha rivelato la persistenza di questo dilemma tra sicurezza collettiva, sotto forma di tutela della salute, con contorni di misteri e attesa di miracoli tutti terreni, da una parte, e libertà individuale, intesa come diritto fondamentale alla riunione, associazione e circolazione, dall’altra.

    Eppure, abbiamo temuto la messa al bando di Dostoevskij?

    Il caso ha fatto notizia, anche se, per fortuna, è subito rientrato. Dostoevskij, come tutti i grandi scrittori russi e come tutta la grande letteratura, semina dubbi, che, come tali, sono invisi ad ogni autocrazia. Proprio la loro ininterrotta circolazione apre qualsiasi spazio chiuso e mette tutto o quasi in discussione. Semmai restituisce saldezza a ciò che la moda del momento dichiara precario e fragile. L’opera letteraria di Dostoevskij tocca vette talmente elevate e dimensioni così ampie dell’umana esistenza da sovrastare ed esondare rispetto alle sue stesse convinzioni politiche su ortodossia, autocrazia e nazionalità russa.  

    Il tema centrale di uno dei suoi ultimi libri è la salute di Dio in Occidente, o meglio, del Dio cristiano. La ritiene una questione centrale anche per interpretare correttamente i conflitti militari, politici ed economici in corso?

    Il titolo è volutamente provocatorio e in parte ricalcato su quello crociano riferito a Hegel. In ogni caso, la storia di un popolo ne determina l’identità e il cristianesimo è stato decisivo nella storia dell’Europa, tanto occidentale quanto orientale. Lo è tuttora, pur se ridimensionato. Oggi, più che mai, andrebbe alimentata una logica di incontro tra i due cristianesimi. Per ora sembra prevalere una chiusura della Chiesa ortodossa, e, per altro verso, la Chiesa di Roma sembra non essere dotata di un’influenza politica paragonabile a quella mostrata negli anni ’80, anche grazie al carisma di Giovanni Paolo II. Oggi risuona flebile, a dispetto dell’impegno e degli accorati appelli conciliativi di papa Francesco. Potrebbe trattarsi di un’ulteriore segnale di indebolimento e della sostanziale marginalità verso cui è oramai scivolato il cristianesimo in Europa. Non incide più nella sua storia, nemmeno nel bene. La secolarizzazione parrebbe dunque completata.

     

    Dio va scritto sempre in maiuscolo?

    Direi di si. La trascendenza, anche laicamente, è opportuno portarla con sé, almeno come educazione al senso del limite. C’è qualcosa che mi eccede, precede e succede. Pensando a Biogem, mi viene ad esempio da dire che la scienza come pura applicazione o come pura tecnica, senza un richiamo a qualche forma di trascendenza, rischia di sollecitare l’uomo all’assenza di limiti, all’eccitazione da sconfinamento perpetuo. A quella che gli antichi Greci chiamavano hybris, la tracotanza, la dismisura, appunto.

     

    Quale nuovo ordine mondiale le sembra plausibile oggi?

    Credo si sia già da tempo affermato un duopolio economico e commerciale Usa-Cina. Il primato tecnologico-militare statunitense è ancora evidente e i cinesi per ora si guardano bene dal lanciare una sfida che possa sfociare in uno scontro armato. Fino ad ora è sembrato che la leadership cinese avesse imparato la lezione impartita dall’esperienza del comunismo sovietico. Dopo Tienanmen la prudenza è stata virtù coerentemente perseguita e praticata. Adesso, però, il nazionalismo crescente di Xi Jinping introduce un’incognita. La vicenda ucraina, d’altra parte, ci conferma che non sembra esserci spazio per manomissioni dell’ordine internazionale non avallate dalle due superpotenze. La Russia ha colpevolmente ignorato l’esistenza del duopolio. Ha tentato di alterare a proprio vantaggio gli equilibri ad ovest, ai suoi confini europei, nel mentre erano venuti meno quelli nel sud-est, con il ritiro americano dall’Afghanistan e l’immediata avanzata delle pretese cinesi. Putin ha peccato gravemente provando a indurre Xi alla rottura di un duopolio sino-americano che alla Cina invece conviene assolutamente mantenere e semmai consolidare.

    Dobbiamo quindi aspettarci un nuovo bipolarismo tra due culture completamente distanti l’una dall’altra?

    Proprio così. Il mondo della guerra fredda era totalmente occidentalizzato. Il marxismo era infatti un figlio legittimo dell’Occidente. La situazione attuale registra, invece, una differenza tra due civiltà davvero distinte e distanti. Se, da un lato, il modello sociale e culturale americano esercita una forte capacità di attrazione, il cosiddetto soft power, e sollecita emulazioni in gran parte del globo, dall’altro lato, il modello socio-culturale cinese non pare altrettanto allettante e catalizzatore di consensi vasti e diffusi. Però la novità e differenza profonda rispetto al blocco comunista dei tempi della guerra fredda è che la civiltà cinese è complessivamente impermeabile alla penetrazione del cosiddetto American way of life. Infatti la Cina è un’ibridazione inedita tra un modello autocratico asiatico – una versione 2.0 del dispotismo orientale di cui parlava ancora Montesquieu a metà Settecento – e un modello produttivo capitalistico occidentale. Lo scenario del prossimo futuro sembrerebbe pertanto quello di una coesistenza di due superpotenze che, a loro volta, rimandano a due civiltà agli antipodi ma egualmente solide, fiere e orgogliose della propria identità. Bisogna quindi educare gli osservatori e analisti contemporanei alla complessità e, citando Max Weber, direi che dobbiamo resistere alla tentazione di essere profeti dalla cattedra. Limitarci, insomma, a fotografare la situazione e intravedere quali siano al momento le sottostanti tendenze in atto. La scienza storica ci dice che gli uomini fanno la storia ma non sanno la storia che fanno. L‘eterogenesi dei fini va sempre messa in conto. Oggi in modo particolare.

     

    E il ruolo dell’Italia?

    Di fronte ad un tale contesto occorre muoversi tenendo conto che nell’attuale sistema delle relazioni internazionali pesa come non mai la potenza, nella sua accezione più ampia ma anche più brutale. In sua assenza o carenza occorre, quindi, dotarsi di prudenza. Questo è il caso dell’Italia, priva o quasi di materie prime e risorse geo-politicamente ed economicamente strategiche. Da italiani dobbiamo ragionare cercando di contribuire a rinsaldare uno spazio politico europeo che sia realmente autonomo rispetto agli interessi geostrategici Usa, pur ragionando e operando nello stesso orizzonte ideale. Ad esempio, l’urgenza di un cessate il fuoco tra Russia e Ucraina è una priorità europea ancor più che statunitense. Tuttavia, l’invito a ragionare ed operare in termini di soggettività unica europea ancor più che all’Italia andrebbe rivolto a Francia e Germania, capaci di influenzare anche altri Paesi dell’Unione. Le responsabilità per l’Italia non mancano, ma non sono le maggiori, tanto meno le più influenti. Potrebbe però agire da pungolo e consigliere ragionevole.

     

    Nel nostro piccolo non ci siamo certo fatti mancare una rivoluzione copernicana, come la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche, prima leader donna e di destra in grado di aspirare concretamente alla Presidenza del Consiglio. Il suo pensiero scientifico in merito?

    Trattasi di un esito per certi versi scontato. L’elettorato italiano, da almeno un quindicennio si reca alle urne alla ricerca della personalità con la p maiuscola in grado di risolvere tutti o quasi i problemi. Una specie di salvatore della patria. Si pensa, tuttavia, troppo al fantino e poco al cavallo e si rischia di ridurre l’appuntamento elettorale ad una fiera delle illusioni. Fuor di metafora, si dimenticano le condizioni storiche di effettivo malfunzionamento della macchina statale che ogni nuovo leader è chiamato a guidare. In questo contesto FdI (Fratelli d’Italia) era l’unica forza all’opposizione e, di conseguenza, la sola capace di suscitare un tal genere di aspettative salvifiche. Aspettative decrescenti, come ha dimostrato l’astensionismo record registrato alle ultime elezioni. Una diminuzione di partecipazione in atto da tempo in Italia, al pari delle altre democrazie occidentali. Dal punto di vista del costume e della mentalità diffusa non possiamo non considerare un passo avanti il consenso tributato ad una donna. Quanto alla sua appartenenza alla destra politica, possiamo sperare che questo traguardo sia in grado di sanare quel clima da guerra civile che dal primo dopoguerra vige in Italia e che ha portato alla lacerazione della comunità nazionale.

     

    La leader di Fratelli d’Italia è per lo meno in cammino verso il mondo conservatore, che per la verità già guida in Europa. Le sembra plausibile l’accompagnamento, in questo percorso, di un certo mondo liberale e-o popolare?

    Nel continente europeo, dopo la seconda guerra mondiale, si è fatta strada l’impropria equazione destra-fascismo. In Italia, soprattutto, è stato difficile far crescere una destra liberale o conservatrice di stampo costituzionale. Probabilmente, sul piano dei valori, la tradizione cattolica può essere uno spazio di conservazione, considerando che nel nostro Paese il mondo liberale sembra fare a gara con il mondo socialista o post-socialista ‘a chi è più progressista’. Non così in Gran Bretagna, dove i Tories mantengono posizioni autenticamente conservatrici, né in Francia, dove il gollismo, pur ridimensionato, ha ancora grande peso, o nella Germania dei Cristiano Democratici. Per non parlare della gran parte dei Paesi dell’Europa orientale.

     

    In Italia, quindi, in quale modo si può essere conservatori?

    Probabilmente ripristinando un equilibrio tra diritti e doveri. Una posizione liberal-conservatrice riconosce il pluralismo, ma non dovrebbe mai cadere in una logica da ‘cancel culture’. Per un autentico conservatore il riconoscimento delle minoranze non deve passare attraverso il disconoscimento  dell’esistenza di una maggioranza ancorata a valori ‘tradizionali’. Occorre un lavoro di riequilibrio naturale della percezione valoriale diffusa.

     

    Quali differenze nota, se le nota, tra il postfascismo italiano e i consimili post-franchismo, post-salarazismo, post-vichysmo?

    Non farei di tutta un’erba un fascio. Sono storie diverse. Spagna e Portogallo, a tacer d’altro, sono usciti molto tempo dopo dal periodo dittatoriale. Sarebbe piuttosto l’ora di liberarsi di una categoria come il fascismo per spiegare qualsiasi fenomeno politico contemporaneo non progressista.


    E, specularmente, riguardo al post-comunismo?

    Comunismo e fascismo sono categorie storiche ben definite. Il fascismo è figlio della prima guerra mondiale, pur avendo alcune caratteristiche sempiterne (l’uomo forte, l’ordine). Con la seconda guerra mondiale è terminato. Quello che prosegue è un fenomeno nostalgico. Il comunismo nasce con Lenin e muore con Gorbaciov. In Italia, da molto tempo non c’è marxismo in senso stretto. Da decenni c’è solo la questione morale, cioè la sostituzione del comunismo con un’ideologia di matrice sessantottina, diventata una posizione liberal, un’ideologia dei diritti estendibili all’infinito. Nel comunismo italiano il lavoro aveva una sua centralità, che oggi si è in gran parte persa e a sinistra è andata da tempo a collocarsi quel tipo di borghesia intellettuale, di funzionari pubblici e di rentier che Gramsci disprezzava oltremodo.

     

    Per Dostoevskij la bellezza salverà il mondo, ma la si può ritrovare anche in un sodalizio profondo tra arte e scienza?

    Nella fase di ricerca dello scienziato non si può mai escludere una componente immaginativa. Il miglior scienziato parte da uno stupore rispetto alla bellezza della natura, di ciò che i sensi per primi suggeriscono, ponendosi così delle domande molto simili a quelle di un artista e di un filosofo, anche se al “perché” preferisce anteporre il “come”. Basti pensare agli abissi ancora inesplorati della fisica quantistica. Ritengo comunque che i maggiori artisti come i maggiori scienziati siano accomunati dalla meraviglia di fronte al mondo. E se è davvero la bellezza a far scoccare la scintilla della ricerca scientifica, occorre che di essa ci si ricordi quando gli esiti di questa ricerca possono consentire usi applicativi deturpanti o persino annichilenti quella stessa natura da cui si è preso le mosse. La bellezza non può non suscitare amore e rispetto, cosicché ribadirei che, messi in moto dalla bellezza, non ci si può esimere dal procedere con prudenza anche quando si tratti di sperimentazione e innovazione tecnologica.

     

    E Dio?

    Gli ultimi sviluppi della scienza non chiudono il discorso sul divino. Semmai lo riaprono. Soprattutto penso alle implicazioni della svolta epocale rappresentata dalle scoperte della fisica quantistica. Mi riferisco, ad esempio, al cosiddetto paradosso del gatto di Schrödinger, alla simultanea compresenza di vita e morte, alla più generale prospettiva di essere da sempre immersi in qualcosa che ci trascende, o meglio ci comprende, ci circonda e avvolge. Noi siamo osservatori costantemente osservati. Si avverte come la presenza di una sorta di struttura originaria, uno sfondo permanente e interminabile da cui i fenomeni emergono, cosicché essere e divenire convivono, coincidono. E quella locuzione avverbiale che ho usato – “da sempre” – mi suggerisce che, ancora più e meglio che il “divino”, è il tema dell’eterno ad essere richiamato fortemente  in causa da certi sviluppi della ricerca scientifica contemporanea.   


      
    Ettore Zecchino

     
    Luigi Moio

    Da quasi un anno al vertice dell’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino), a tutti gli effetti l’ONU del settore, Luigi Moio, mondragonese di nascita, italo-francese di studi, è docente ordinario di Enologia presso l’Università di Napoli ‘Federico II’. Autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche, accademico dei Georgofili, è anche un divulgatore di talento e, con il suo ‘Il respiro del vino’, ha raggiunto il grande pubblico, in Italia come in Francia.
    Ideatore e realizzatore, come consulente, di alcune tra le più importanti etichette del Meridione, dal 2001 ha un’azienda tutta sua, a Mirabella Eclano, dove dosa attentamente arte e scienza. Un approccio da ‘Due Culture’ per antonomasia. Al meeting di Biogem il professore Moio ha partecipato nell’edizione del 2017.

    Professore, lei è il terzo italiano alla guida dell’OIV, e porterà questa prestigiosa istituzione a tagliare il traguardo dei suoi primi 100 anni. Ce la può far conoscere meglio?
    L’OIV è il frutto di una lunga storia scientifica e diplomatica. Tutto è cominciato nel 1874, quando, nel corso di un convegno di viticoltori, tenutosi a Montpellier, fu creata una commissione di esperti italiani, francesi, svizzeri, austriaci e tedeschi, chiamati ad individuare soluzioni all’epidemia di fillossera, che stava devastando i vigneti di mezzo mondo. Dopo oltre 30 anni, l’aumento incontrollato della produzione e del commercio del vino rese più facile la sua contraffazione (a inizio secolo non c’era nemmeno una definizione precisa della bevanda).  Nel 1908 a Ginevra, in Svizzera, nasce quindi una prima, embrionale versione dell’OIV, caratterizzata come un baluardo contro le false indicazioni di provenienza dei vini. 
    Nel 1924, a Parigi, evolve in un’organizzazione intergovernativa, l’Office International du Vin, costituto da sette Paesi, tra cui l’Italia.
    Nel 1958, allargatasi, nel frattempo, fino a 29 membri, l’OIV diventa l’Office Internazionale de la Vigna et du Vin.
    Nel 2001, infine, con una modifica dello statuto, i Paesi membri approvano il cambio del nome in: ‘Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino’.
    Oggi l’OIV comprende 48 stati membri, rappresentativi di tutti i continenti, e copre l’88% della produzione di vino mondiale e l’86% del consumo.  Si tratta di un organismo a carattere scientifico, che custodisce i principi di integrità del vino, indicando a priori le misure necessarie all’armonizzazione internazionale delle pratiche produttive e del commercio, in un dialogo costante con altre organizzazioni internazionali.

    Quali obiettivi si prefigge per la sua presidenza e cosa ha già cominciato a realizzare?
    Sono profondamente onorato di essere stato candidato dal Governo italiano per la presidenza del centenario. In questo momento, fra l’altro, l’OIV è riuscita a dotarsi di una sede definitiva, un palazzo settecentesco, a Digione, che sicuramente qualifica ancora di più l’organizzazione. In questa bella città della Borgogna ho completato il mio dottorato di ricerca, nel 1993, e qui è nata anche una mia figlia. Coincidenze biografiche che mi motivano fortemente.
    Come presidente, insieme al direttore generale, lo spagnolo Pau Roca, sto lavorando per allargare il numero degli Stati membri, cercando di far rientrare gli Usa, usciti più di 20 anni fa dall’OIV. Un altro aspetto molto importante è quello di intensificare sempre di più le collaborazioni con le altre organizzazioni intergovernative (FAO e OMS su tutte). Le problematiche odierne necessitano, infatti, di un confronto sui grandi temi, e l’OIV, pur disponendo di una rete propria di circa mille scienziati, non può chiudersi in un recinto. Temi come il cambiamento climatico, lo sviluppo sostenibile, l’enologia a basso impatto e la digitalizzazione dell’intera filiera vitivinicola si gioverebbero molto di un approccio multidisciplinare e della collaborazione delle altre organizzazioni intergovernative.
    Venendo agli ambiti più tradizionali, come le problematiche relative all’etichettatura, alle denominazioni, allo sviluppo di nuovi metodi di analisi, all’armonizzazione delle normative allo scopo di favorire il commercio internazionale, è fondamentale continuare ad animare il dibattito ed il confronto tra gli esperti scientifici dei vari Stati membri, allo scopo di accelerare la definizione e l’approvazione delle risoluzioni. È chiaro che da docente universitario mi sta molto a cuore il rafforzamento dell’Organizzazione come riferimento scientifico mondiale della filiera vitivinicola e la difesa della sua indipendenza scientifica. Non secondaria è infine l’attività in corso per organizzare le celebrazioni del centenario. Un primo atto importante è quello di proclamare l’anno 2024 come anno internazionale della vigna e del vino.

    Da figlio d’arte ci confida i meriti particolari che sente di attribuire a suo padre Michele nella formazione enologica di Luigi Moio?
    Innanzitutto, mi ha spinto agli studi enologici, che hanno gradualmente avuto la meglio sulle mie passioni giovanili per la matematica e per la fisica. Grazie a lui, sono arrivato ad Avellino nel 1973, appena adolescente, per entrare nella prestigiosa scuola enologica intitolata a Francesco De Sanctis (e questo spiega il mio legame fortissimo con l’Irpinia). Più ancora, mio padre, come i migliori genitori di un tempo, mi ha educato con l’esempio diretto delle sue straordinarie virtù, come la determinazione, la passione, la perseveranza e l’abnegazione, soprattutto nel lavoro.

    Cos’era davvero il mitico Falerno della Roma imperiale?
    Il vino ha la grande fortuna di essere una bevanda mono-ingrediente. Quando si è scoperta l’uva come frutto perfetto per ottenere in modo spontaneo una fermentazione alcolica, è iniziata l’epopea del vino. Il problema storico principale è stato sempre quello della sua conservazione. Il Falerno deve la sua fortuna alla provenienza da uve quasi appassite, nei terreni caldi e sabbiosi dell’’Ager Falernus’. Era quindi un vino ad alta gradazione alcolica, maggiormente protetto da deviazioni microbiologiche, e, di conseguenza, con una migliore attitudine alla conservazione (un po’ come i vini delle isole greche, Chio e Lesbo). Oggi ci ricorderebbe un porto, un marsala, uno sherry, pur non essendo fortificato. Trimalcione, nel mitico banchetto, poté quindi brindare, tra storia e leggenda, con un Falerno di 100 anni prima.

    Il vino di oggi è lontanissimo da questi primi ‘esemplari’, e, se di qualità, è ormai una bevanda prodotta con criteri rigorosamente scientifici. Ce li illustra?
    La grande differenza è che prima si vinificava senza conoscere i meccanismi biochimici e chimico-fisici della fermentazione alcolica. L’alcol stesso non si conosceva. Si parlava, genericamente, di spirito, in evidente connessione con gli dei. Da Lavoisier in poi si è sviluppata una conoscenza compiutamente scientifica. Lo stesso processo riusciamo, quindi, a governarlo meglio, e le conoscenze acquisite ci consentono di prevenire e di poter seguire con grande precisione l’intero ciclo produttivo.

    A proposito di scienza, per lei galeotta fu la Borgogna?
    Non proprio. Sono un federiciano di ferro. La mia vita è la ‘Federico II’, che, per inciso, nello stesso 2024, festeggerà i suoi 800 anni. Mi sono formato alla prestigiosa Facoltà di Agraria di Portici. In Francia sono andato, in un secondo momento, per specializzarmi. Lì si è consolidato il mio interesse per gli odori e i profumi del vino. Ho quindi conosciuto l’incanto della Côte-d’Or, in Borgogna. Ho identificato le quattro molecole chiave del profumo del pinot noir (1995, su American Journal of Viticulture and Enology, uno dei miei lavori più citati). Ma anche sullo chardonnay ho realizzato tante ricerche. La Borgogna mi ha inoltre fatto capire in pieno il concetto fondamentale di filiera agricola, come presupposto indispensabile per la produzione di vini di grande qualità.

    Produrre il vino, come abbiamo detto, è una questione a tutti gli effetti scientifica. E la dimensione artistica del vignaiolo?
    Anch’essa è molto presente, come, del resto, in tutta la scienza. Un ricercatore è infatti un visionario, un eterno fanciullo, un individuo che vive nel dubbio e che, comunque, è in una condizione creativa permanente.

    Il suo settore ha ovviamente risentito della pandemia in corso. Ci dice, in concreto, cosa è strutturalmente cambiato?
    È cambiata, in generale, la visione del mondo, forse siamo cambiati tutti.  Mi accontento di sperare che si sia un po’ ridotta la deriva verso un certo delirio di onnipotenza umana, che tanti danni ha prodotto e produce soprattutto nei confronti della natura. Personalmente, durante la fase più dura della pandemia, ho avuto più tempo per immergermi in quella natura agricola che è alla base della mia formazione e del mio essere. In un certo senso, un privilegio.

    Anche il vino è spesso vittima di epidemie di varia portata. Ci descrive le pandemie storiche e le strategie utilizzate dall’uomo per superarle?
    L’infestazione maggiore che si ricordi è stata quella della fillossera, di fine Ottocento, determinata dall’invasione di un insetto, che ha distrutto il vigneto europeo.  Si è risolta mediante la tecnica dell’innesto della vite europea (Vitis vinifera) su un portinnesto ottenuto dalla vite americana, precedentemente colpita dall’insetto e diventata ad esso resistente. Ovviamente, una soluzione offerta dalla scienza.

    Il mutamento climatico rischia di cambiare la geografia del vino. In parte lo ha già fatto, proprio in Europa. Quali contromisure è possibile adottare?
    Probabilmente si pianterà la vite ad altitudini maggiori, o a latitudini un tempo impensabili. Bisogna, tuttavia, preservare a tutti i costi gli areali storici, impedendo la delocalizzazione dei vigneti. Gli areali storici devono continuare ad essere i luoghi di produzione in cui si ottengono i vini di massima qualità. È infatti attraverso questi luoghi che il vino ha esercitato il suo fascino verso i consumatori del mondo intero, imponendosi a livello planetario e dimostrando la sua vocazione universale.
    Contromisure possono sicuramente essercene. Si può, ad esempio, lavorare sui portinnesti, o sulla selezione di cloni capaci di un minore accumulo zuccherino ed un mantenimento di una maggiore acidità, quindi, in grado di sfidare temperature più elevate. Insomma, sarà necessario finanziare programmi di ricerca che puntino a tutelare un patrimonio identitario irrinunciabile per il vino.

    Per creare un grande vino bisogna averlo in qualche modo già nella propria testa, cercando poi il terroir adatto per realizzarlo.  Ci parla un po’ del suo sogno realizzato di ‘Quintodecimo’?
    Effettivamente, sono riuscito a realizzare, grazie all’indispensabile collaborazione di mia moglie Laura, ciò che ho sempre studiato e che ho sempre insegnato nelle aule universitarie. Volevo farlo in Irpinia, sia perché sono legato a questa terra meravigliosa, sia per la sua elevata vocazione nella produzione di vini di qualità. Mirabella Eclano, sede della mia azienda e abitazione, dista pochi chilometri da Taurasi, area d’elezione per l’aglianico. Per questo vitigno, ma anche per la falanghina, volevo tenermi sui 400 metri, realizzando una viticoltura collinare, che rispondesse in pieno alle caratteristiche dei terreni della mia tenuta di Quintodecimo. Per i due bianchi, gli areali di Lapio e Tufo raggiungono altitudini maggiori, più adatte, a certe condizioni, al fiano e al greco. In tutti questi casi, il vino è figlio naturale dell’areale in cui è prodotto. Tutto questo, d’altra parte, è l’esito logico della mia intera parabola professionale. E, in fondo, ho semplicemente fatto quello che dovevo fare. Un autentico sogno di libertà.

    Il vino, bevanda contadina per eccellenza, è comunque un prodotto di lusso. Non rischia di essere considerato un po’ ‘snob’?
    Storicamente è stata una bevanda contadina perché per millenni ha periodicamente rappresentato un’alternativa sicura all’acqua, spesso contaminata dal punto di vista microbiologico. Una bevanda, quindi, utilizzata anche per non disidratarsi. Di qui la celebre frase di Louis Pasteur: “Il vino è la più sana ed igienica delle bevande”, garantita dalla sua componente alcolica e dalla sua acidità. Oggi è invece affiorata un’estetica dell’olfatto e dei profumi e il vino è diventato un ambasciatore del territorio che lo esprime, creando un legame culturale con la comunità, che in qualche modo rappresenta.  L’intensità di questo rapporto rende il vino una bevanda unica al mondo.

    Quali competenze scientifiche specifiche occorrono per produrre un buon vino?
    Tutte quelle agronomiche, alla base di un corso di laurea in viticoltura ed enologia. La conoscenza profonda delle scienze agrarie che, ovviamente, presuppone approfondite conoscenze delle materie di base, come la matematica, la fisica, la chimica generale, la chimica organica e la biochimica, solo per citare le principali.

    Dalla scienza all’arte, gli incroci con il vino possono essere innumerevoli. Siamo curiosi di conoscere i suoi accostamenti con letteratura, cinema, arti figurative, musica, filosofia, o altro ancora.
    Una bottiglia di vino per me è un po’ come un libro. Ho una grande passione per le arti figurative. Per questo, ho omaggiato Vincent Van Gogh, il mio pittore preferito, chiamando ‘Giallo d’Arles’ il mio Greco di Tufo, capace di sviluppare, grazie alla ricchezza dei suoi composti coloranti, quell’intensità di giallo, virante al rosso, che è tra i marchi più noti del geniale olandese. In cantina, inoltre, mi circondo di quadri. Suono la chitarra, e la falanghina ‘Via del Campo’ è un omaggio a Fabrizio De André. A proposito, ho sempre pensato che i tempi fossero maturi per un pieno riscatto della falanghina, un vitigno spesso bistrattato, ma, a mio parere, straordinario, anche in Irpinia.
    Nel mio libro, ‘Il respiro del vino’, mi sono divertito a citare film a tema, come il suggestivo ‘French Kiss’, di Lawrence Kasdan, e l’appassionato ‘Il profumo del mosto selvatico’, di Alfonso Arau.

    Il primo miracolo di Gesù citato dai Vangeli, fu quello alle nozze di Cana. Il simbolismo del vino è fortissimo nell’eucaristia. La classicità greco-romana lo collegava a una divinità maggiore dell’Olimpo. Siamo al cospetto di una bevanda spirituale?
    Certamente una bevanda simbolo di vita e di relazione con la divinità. ‘’Io sono la vite e voi i tralci’’, diceva Gesù, confermando che il vino è vita. Non è un caso che l’etimologia dei due termini sia la stessa. E non è un caso che Adamo, nudo, in molte raffigurazioni è coperto con una foglia di vite.

    Il vino, è proprio la Bibbia a decretarlo, ma la scienza a confermarlo, può essere un autentico veleno, pure a dosi non particolarmente elevate. Senza contare i gravissimi effetti collaterali ‘sociali’ di un eccesso anche occasionale. Non crede che i messaggi sulle sue virtù nutraceutiche siano un po’ troppo ottimistici?
    Certamente sì. Questa bevanda dovrebbe concorrere a uno stile di vita sano, di cui noi mediterranei potremmo essere la migliore espressione. Il vino non è certamente un medicinale. Non bisogna infatti dimenticare che agli antiossidanti, di cui è ricco, si accompagna sempre l’alcol.

    Da esperto di aromi del vino, non teme di scivolare, talvolta, nelle insidie sottili della suggestione?
    No, perché la degustazione, se professionale, deve essere pienamente analitica, tecnica.

    Le è mai capitato di sbagliare grossolanamente in una degustazione alla cieca?
    Molto, molto raramente.

    Quella del sommelier è un’attitudine estremamente affascinante, ma anche un po’ modaiola. Si può godere del vino, pur non cogliendo una buona parte dei sentori descritti su un’etichetta?
    Il ruolo del sommelier è stato straordinario, soprattutto in Italia, dove ha concorso in maniera decisiva al grande rilancio dell’intero comparto vinicolo. Il suo approccio al vino, legittimamente, prevede anche una componente emozionale, in grado di suscitare empatia e trasporto nel consumatore. Quanto a quest’ultimo, pur non cedendo mai alla frustrazione, dovrebbe sempre tentare di esercitare la propria memoria olfattiva. Magari, annusando una economica cassettina degli odori, come Kevin Kline riuscì a far fare, con notevoli risultati, a Meg Ryan, nel già citato ‘French Kiss’.

     

    Ettore Zecchino








     

    Mario De Felice

    Direttore dell’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale (IEOS) del CNR di Napoli, Mario De Felice è professore ordinario di Genetica Medica presso l’Università ‘Federico II’, sempre nel capoluogo campano. Immunologo e patologo generale per formazione, ha successivamente allargato i suoi studi alla medicina molecolare e alle biotecnologie mediche.
    Direttore Scientifico di Biogem dal 2007 al 2014, è tra i fondatori del meeting ‘Le Due Culture’, del quale continua ad essere uno dei più affezionati protagonisti.

    Professore, ci racconta questo suo ‘passaggio’ dalla patologia generale alla genetica e alle biotecnologie mediche?
    La patologia generale è una disciplina con alcune caratteristiche peculiari, presente solo in Italia. In particolare, approfondisce le basi biologiche delle malattie, includendo lo studio della genetica, applicata alla medicina. Quanto alle biotecnologie, nel nostro settore sono da tempo indispensabili. La ricerca, in ogni campo, non può prescindere dall’evoluzione tecnologica, come pioneristicamente ha dimostrato Galileo, con il suo telescopio. In ambito medico, non casualmente, molti Nobel sono stati assegnati ad altrettanti innovatori biotecnologici.

    Da Biogem allo IEOS, sempre nel segno del professore Gaetano Salvatore?
    IEOS, uno dei più antichi istituti del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), fu letteralmente inventato da Gaetano Salvatore, che intuì la necessità di strutture dedicate prevalentemente alla ricerca di base, anche in campo medico. Da allora siamo sempre stati inseriti all’interno di una facoltà di medicina, e tutti i direttori di IEOS sono stati personalità provenienti da questo mondo.

    Il suo percorso di formazione professionale annovera numerosi soggiorni ad Heidelberg. Quali sono i centri di emigrazione scientifica più quotati nell’Unione Europea oggi?
    Attualmente in Italia esistono centri di eccellenza, frequentati anche da stranieri, con rare eccezioni situati prevalentemente al Nord, nell’area lombardo-veneta. In Campania siamo stati i pionieri della disciplina negli anni 80, per poi subire, appunto, una significativa fuga di cervelli verso il Nord o verso altri Paesi. In Europa, considerando il rapporto tra investimenti e dimensione della popolazione, metterei al primo posto la Gran Bretagna, seguita dalla  Germania e dalla Francia.
    La ricerca statunitense continua ad avere una tale forza economica alle spalle da consentire la costante conferma di una ormai storica leadership mondiale.

    La guerra in Ucraina ha fatto venire alla luce l’urgenza di un sistema europeo di difesa comune. E sul fronte della ricerca?
    Direi che una filosofia comune nella ricerca esiste già da molto tempo, almeno nel nostro campo.

    Rimanendo sull’attualità, quale apporto ha dato il suo Istituto alla ricerca sul COVID19?
    Il CNR ha lanciato e sta seguendo un progetto, coordinato da quattro istituti, tra i quali il nostro, su 10mila volontari, finalizzato ad analizzare la risposta al virus o alla vaccinazione per un periodo di 12 mesi. Stiamo anche studiando la costituzione genetica di questi individui, alla ricerca di eventuali interazioni con il COVID-19.

    Più in generale, cosa sappiamo di definitivo a livello genetico su questa pandemia?
    Ancora poco, ma abbiamo imparato a gestire bene la malattia e i pazienti, soprattutto grazie al notevole successo biotecnologico dei vaccini. Da anni la medicina si era concentrata soprattutto sulle patologie cardiovascolari e oncologiche. Abbiamo quindi capito che non si deve mai abbassare la guardia sulle malattie di natura infettiva.

    Secondo lei durerà ancora a lungo?
    Credo che, al momento, nessuno sia in grado di dare una risposta definitiva o sufficientemente autorevole.

    I vaccini sono per il suo gruppo un oggetto di ricerca?
    Direttamente, no.

    Quale giudizio si sente di esprimere sulla gestione della pandemia in Italia e nel Mondo?
    Sono state formulate diverse critiche, spesso ingiuste. L’Italia, come tanti altri Paesi, non era preparata a un evento del genere. E questa è stata, forse, la colpa maggiore. Scoppiata la pandemia, abbiamo invece fatto del nostro meglio, con metodo e intelligenza, pur nell’ambito limitato delle conoscenze scientifiche in materia.

    Teme il vaiolo delle scimmie?
    Per quello che ho letto, al  momento direi di no.

    COVID a parte, ci fa il punto sugli studi più importanti in corso allo IEOS?
    Siamo molto concentrati nella ricerca sulle malattie metaboliche, il diabete di tipo 2 su tutte. Possiamo inoltre contare su una sezione dedicata allo studio delle malattie di origine infiammatoria. Non abbandoniamo, comunque, gli approfondimenti sulla patologia tiroidea, che hanno caratterizzato l’istituto sin dal suo momento fondativo.

    Un breve riepilogo dei suoi anni a Biogem?
    Sono stati tutti bellissimi. Si respirava aria di novità ed era palpabile lo sforzo di dimostrare la plausibilità di una ricerca di base e insieme traslazionale, in un’area ‘diversamente centrale’. Oggi Biogem è una realtà di assoluto prestigio e non posso non essere compiaciuto, oltre che orgoglioso, per aver contribuito, sia pure in minima parte, al suo successo.

    Ha incontrato particolari difficoltà per la collocazione periferica dell’Istituto rispetto agli altri centri del sapere scientifico?
    Fortunatamente ai nostri giorni la telematica può azzerare le distanze.

    Da appassionato di letteratura e di fantascienza può dirci se, nel suo campo, in qualche caso la realtà ha superato la fantasia?
    Da anni la biotecnologia medica lavora in ambiti mai immaginati dalla fantascienza più seria.

    Quali letture scientifiche si sente di consigliare?
    In primo luogo, i buoni libri sulla metodologia della ricerca, alla scoperta di tanti processi mentali affascinanti. Come quelli emergenti nei ‘Taccuini’ di Charles Darwin.

    Le Due Culture di quest’anno si propongono di indagare i legami tra Scienza e Arte. Qual è il suo rapporto con l’arte?
    L’arte è bella perché è democratica. Il mio rapporto con questo mondo è molto naif. Non sono un lettore di saggi o di opere critiche di settore, ma credo che entrare in un museo regali sensazioni immediate e intense a tutti.

    E con la storia?
    E’ la mia vera passione. Mi limito a dire che dovrebbe essere studiata approfonditamente da tutti, ma soprattutto dai politici.

    Il suo tempo libero?
    La lettura, prevalentemente saggistica storica e scientifica. Amo anche viaggiare, ma il COVID mi ha costretto a rallentare significativamente.

    Debolezze a tavola?
    Tante. E l’Irpinia, con i suoi formaggi e le sue molte delizie, ha contribuito sensibilmente ad allungare l’elenco.

    Da paganese doc avrà partecipato spesso ai festeggiamenti per la Madonna delle Galline. Da uomo di scienza come valuta questa religiosità popolare, oggi sempre meno fervida?
    Mi fa molta ‘tenerezza’. Li considero due campi diversi e non confliggenti.

    Al momento, quali limiti etici sente di porre alla ricerca in campo genetico?
    Naturalmente siamo in un settore molto delicato, ed è particolarmente difficile regolare l’intera materia dall’alto e aprioristicamente. Dovrebbe soccorrerci sempre l’etica individuale.

    C’è una differenza tra mondo occidentale e non?
    Permangono sostanziali differenze, ma altrove si stanno lentamente adeguando agli standard di questa parte del globo.




    Ettore Zecchino

     

    Carmen Lasorella

    Prima giornalista italiana a ricoprire il ruolo di inviata di guerra per la TV e tra le prime a condurre un TG, Carmen Lasorella ha una carriera prestigiosa e poliedrica alle spalle. Orgogliosamente lucana di origine, ma residente da decenni a Roma e cittadina del mondo, è stata per decenni una colonna della televisione pubblica italiana, anche in ruoli dirigenziali, prima di passare, per qualche anno, alla guida dell’emittente nazionale di San Marino. Autrice di celebri reportage, soprattutto di ‘esteri’, è stata anche corrispondente in Germania e nei Paesi dell’Europa orientale, oltre che autrice e conduttrice di programmi e apprezzata saggista e opinionista per la carta stampata.

    Ha moderato alcuni tra i più interessanti dibattiti alle ‘Due Culture’ di Biogem.

    Direttrice, come si vive una guerra a ‘distanza’?

    Direi, male. Le guerre scavano abissi di disumanità, si somigliano, pur essendo diverse. E’ lo stesso orrore, che pure ti sorprende sempre, perché non riesci ad accettare che si arrivi ad una ferocia così inaudita, con un campionario di armi che ignora i divieti, mentre la prevaricazione sui più deboli, diventa la norma. Ho raccontato la guerra a cavallo tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. Fino all’ultimo conflitto di Beirut, nel 2006. Ho fatto questo lavoro per 15 anni. In Africa, in Medioriente, nel Vicino Oriente, in Centro America, nei Balcani, in Asia. E’ stato un lavoro duro. Ho vissuto il senso d’impotenza, la rabbia, la frustrazione, ma ogni volta toccavo i fatti: sono stata nei luoghi giusti al momento giusto. Il conto poi lo pagavo a casa, al rientro: ci voleva tempo per recuperare. Il sonno spesso non arrivava o si interrompeva all’improvviso. Oggi, che non sono più sul campo, cerco di fornire un contributo di analisi. Un giornalista non va mai in pensione.

    L’Ucraina è una delle poche realtà da lei non ‘testimoniata’ in prima linea. Quali le analogie e le differenze con i tanti teatri bellici conosciuti in passato?

    E’ un conflitto nel cuore dell’Europa. Non è il primo dalla Seconda Guerra mondiale, ci sono stati il Kosovo, la Bosnia, oramai 30 anni fa. Erano guerre feroci come questa, con aggressori ed aggrediti, ma la guerra in Ucraina, sicuramente, è la più rappresentata dai media, a mia memoria. E’ tutti i giorni nelle nostre case, è uno scenario di prossimità da ogni punto di vista. A molti fa paura. Il rischio nucleare resta sullo sfondo, lontano, ma il pericolo di un allargamento del conflitto potrebbe diventare vicino. Ancora una volta, i territori ospitano le guerre degli altri, come in Siria e in altri contesti, del resto. Ha creato stupore in tutti la resistenza e il coraggio degli ucraini, cui si è aggiunta la capacità di grande comunicatore del Presidente Zelensky. Per un’Europa, diciamo pure infiacchita, è stato uno shock, un richiamo ai valori, all’orgoglio, alla coerenza. E’ evidente che dovranno cambiare le relazioni internazionali, nella prospettiva del multilateralismo. A tale proposito mi auguro che non si insista nell’umiliazione del nemico, preludio alle maggiori tragedie della storia.

    Come pensa se ne possa uscire?
    Con il negoziato, anche se sarà difficile creare le condizioni di una pace duratura.

    E riguardo all’altra ‘guerra’ (al COVID-19) ormai biennale?
    La pandemia, ancora in corso, al di là delle teorie complottiste, ha confermato che nell’era dell’antropocene, l’uomo interviene a modificare la realtà, in tutti i campi, anche in quello della scienza. Con il tempo, forse, saranno resi noti i dettagli su questo virus potenziato, che continua a mutare. Questo momento così critico ci ha cambiato, abbiamo meno certezze. Ralph Dahrendorf rifletteva su come, diventando super uomini, diventiamo disumani. Lo penso anch’io, ma resto ottimista sul potenziale del capitale umano. Quanto al contrasto alla pandemia, non si può che estendere a tutti, su scala mondiale, il diritto alla prevenzione e alla cura, evitando, al tempo stesso, le fughe in avanti di una certa pseudo-scienza irresponsabile.

    Ci parla del ruolo della comunicazione in questi due così diversi conflitti?
    Il tratto comune, a mio avviso, è l’infodemia. Un eccesso di informazione, che non aumenta la conoscenza, ma contribuisce alla confusione. C’è stato un approccio ‘terroristico’, troppe volte, con poca attenzione alla resilienza ed ai diritti soggettivi dei cittadini. Il Covid è diventato un appannaggio del governo e degli esperti, proposti di continuo, nella diversità degli approcci. Per mesi si è parlato solo di Covid, dimenticando che il mondo continuava a girare e con il mondo si è perso il contatto. Un fenomeno quasi tutto italiano, dove il racconto della pandemia è stato inoltre pieno di lacune, costruito sulle veline, sulle conferenze stampa, con i giornalisti, che si limitavano a passare i comunicati ufficiali. Gli inviati, che hanno cercato un riscontro a quanto veniva dichiarato, sono stati davvero pochi. Personalmente, sono molto critica in proposito.
    Anche il racconto sull’Ucraina, come dicevo prima, ha raggiunto livelli mai conosciuti in passato, con riferimento ad una guerra. In questo caso, tuttavia, l’eccesso non dispiace. Meglio avere quanti più occhi e voci pronti a testimoniare quello che accade, piuttosto che silenzi o indifferenza. Conta però la qualità del racconto e l’esperienza. Una volta, sugli scenari internazionali arrivavano in pochi: era la solita sporca dozzina che continuava ad incontrarsi nei punti caldi del mondo. Oggi partono ragazze e ragazzi, che spesso appaiono disorientati dinanzi a quello che incontrano. Nel mestiere dell’inviato servono lucidità, contatti, fonti attendibili, diverse, per non subire la propaganda. La tv generalista italiana ( non parlo delle ‘Tv all news’ ) sta fornendo una copertura quotidiana della guerra incredibile, sicuramente, più di quanto accade in altri Paesi europei, anche nella stessa Germania, che conosco abbastanza, avendoci lavorato.

    La sua luminosa e molto varia carriera ha incrociato solo lateralmente il mondo delle scienze. Quali caratteristiche considera peculiari del giornalismo scientifico?
    Il rigore, la competenza, la preparazione, e, di conseguenza, la capacità di utilizzare un lessico appropriato. In generale, il giornalismo scientifico, pur mantenendo le caratteristiche generali del nostro mestiere, richiede una formazione specifica.

    Le ‘Due Culture’ di quest’anno hanno come tema principale ‘Arte e Scienze’. Questo connubio cosa le fa venire in mente?
    L’arte non ha bisogno di mediazioni. Goderla è un dato immediato. Al tempo stesso, tutti confidiamo nella scienza per la prospettiva di un mondo migliore. Insieme, possono regalarci bellezza e benessere, intesi come capacità di costruire un futuro migliore.

    Quali progressi nota nel Mezzogiorno in questi ultimi anni?
    Al netto di qualche eccezione, temo che il Mezzogiorno abbia perso il treno dello sviluppo. La classe politica meridionale, che come diceva De Rita, non ha più classe, rimane prigioniera di micro-interessi territoriali, immobile nelle solite logiche clientelari e parassite, incapace di visione, inerte verso il futuro. In Germania, il gap tra Ovest ed Est è stato colmato in 30 anni, in Italia, a 150 anni dall’Unità, il divario si è allargato. Ero a Berlino negli anni successivi all’unificazione ed ho potuto seguire e raccontare quanto stava accadendo. I tedeschi hanno avuto ed hanno messo in pratica un’intuizione geniale: quando si è in ritardo bisogna ricorrere agli acceleratori. Nella Germania dell’Est sono stati dunque creati dei centri di eccellenza, soprattutto poli di ricerca, che hanno fatto miracoli. Colmando i divari sociali, culturali, economici, politici, gli Ossi si sono avvicinati ai Wessi ed hanno dimostrato, che una pianificazione intelligente e lungimirante abbatte gli ostacoli. I tedeschi hanno puntato sugli investimenti nella ricerca scientifica, mettendo al centro l’innovazione e questo approccio ha mosso i cervelli e le tasche, con risorse pubbliche e private. Si sono promosse best practices. Si è realizzato un effetto contagio, in positivo.

    Cosa si può fare per migliorare ulteriormente lo stato delle cose?

    Credo che i cittadini debbano credere di più nei propri diritti , ma anche nei doveri, a cominciare dal momento del voto. E’ indispensabile il rinnovamento politico. L’elettore deve imparare a scegliere. A seguito di ciò, credo, deriverebbe quasi automaticamente la formazione di nuove classi dirigenti, più adeguate alle sfide del presente, per fare futuro.

    Da pioniera dell’emancipazione femminile intellettuale e professionale in Italia, ritiene che il nostro Paese sia ancora indietro nel percorso verso la piena parità?
    Sicuramente. Siamo indietro rispetto a molti Paesi europei. Pensando solo al tema del lavoro, dobbiamo considerare che nel Sud non si arriva al 30% di donne lavoratrici, mentre l’Italia si ferma al 49%. Il famigerato soffitto di cristallo non ha reso possibile, da noi, un percorso in linea con il nostro tempo. Nella crisi del lavoro, si sacrificano con miopia le donne e i giovani. Guardare alle donne, che ce l’hanno fatta va bene e fa bene, ma non basta. Il cambiamento si misura sul pil pro-capite, che sarebbe molto più alto, se si impiegasse doverosamente la risorsa-Donna.

    Cosa pensa delle ‘quote rosa’?
    In passato, ero contraria, non lo sono più. Serve un “radical-shift”. Un sistema declinato al maschile si smonta con la volontà degli uomini e delle donne. Insieme. Dunque, le donne devono essere più numerose nei ruoli che contano per poter pilotare il cambiamento. Grazie alle quote rosa, c’è una possibilità, che accorcia i tempi.

    Recentemente ha ‘lambito’ la politica attiva nella sua Basilicata. Esperienza definitivamente chiusa?
    Mancavo dalla vita lucana dai tempi del liceo. Negli anni, tornando solo per le visite ai miei genitori, avevo continuato a custodire un’immagine romantica di quel territorio. Ho ritenuto che fosse necessario entrare in quella realtà e viverla per provare a capire. Parliamo di un contesto, purtroppo in fondo a tutti gli indicatori sociali ed economici del nostro Paese e dunque dell’Europa. Quello che ho incontrato è stato un mondo legato al passato, indifferente al senso della sfida , prigioniero di una mentalità rassegnata, che giustifica perfino i privilegi, dove si accetta che i diritti vengano concessi dal politico di turno. Le qualità del popolo lucano restano, ma in una società ‘infiacchita’ e purtroppo povera di capitale umano competitivo. Ho capito, che non potevo fare niente in quel momento. Mancavano le condizioni per impegnarsi. Tuttavia, da donna del Sud, sento fortemente le mie radici, non mancherò di dare il mio contributo se servirà, affinché le cose cambino. Ho compreso, però, che bisogna “costruire” il risveglio, bisogna “creare” le condizioni giuste. Serve un lavoro di squadra, con persone preparate e decise, che si impegnino nella “coltivazione” della fiducia. La necessità del cambiamento va condivisa e alimentata.

    Si è mai rivista in qualche ‘inviato al fronte’ della grande letteratura e del grande cinema?
    Ho avuto il privilegio di conoscere Tiziano Terzani ad Hong Kong, nel 1997 in occasione dell’Handover dall’amministrazione britannica a quella cinese. Ho sempre ammirato Terzani, un uomo che ha vissuto e lavorato cercando la verità, un uomo che ha accettato il cambiamento, dovunque e sempre. Un uomo, che quando ha incontrato il cancro, ha indagato anche la trasformazione che stava intervenendo nella sua vita, spostando la ricerca dal mondo all’interno di se stesso.
    Ho amato molto Ernest Hemingway per il suo modo di interpretare l’esistenza in maniera epica, travolgente, perfino eroica, mantenendo però la prospettiva del racconto e della testimonianza.
    L’amico di una vita è stato, invece, il collega Giorgio Torchia, inviato storico de ‘Il Tempo’, con il quale per anni abbiamo ragionato della grande politica internazionale, spesso con opinioni divergenti, fino a volte allo scontro. Un’esperienza vivificante, interrotta dal cancro.
    Quanto al cinema, rimanendo sui temi del giornalismo, mi vengono in mente ‘Quarto Potere’ di e con Orson Wells, penso ad Humphrey Bogart: ‘E’ la stampa, bellezza!’, ma non posso rinunciare ad ‘Urla del Silenzio’, ambientato nella Cambogia di Pol Pot. Lo considero un film bellissimo, mi ha dato forti emozioni. Ha raccontato senza enfasi l’orrore, che porta la guerra e la vita degli inviati sul fronte.

    Un cibo e un vino della memoria capaci di rilassarla?
    Un bicchiere di Aglianico del Vulture da abbinare al Caciocavallo, con la cicoria di campo.

    E un brano musicale?
    Ho studiato pianoforte e amo la musica classica, ma anche il Jazz. In questo momento mi viene in mente la ‘Patetica’ di Beethoven, che è un distillato di armonia, pieno di forza.

    Più in generale, le sue passioni extra-professionali?
    Soprattutto lo sport. Sono stata una campioncina regionale di atletica, ho giocato nella nazionale juniores di pallavolo, poi basket, sci, tennis. Amo andare a cavallo ed ho due motociclette e una bici.

    Progetti per il futuro
    Sto scrivendo un romanzo.

     
     
    Ettore Zecchino
     
     
      
     
     
     
     
     
     

     

    Salvatore Auricchio

    Decano e caposcuola della clinica pediatrica campana, Salvatore Auricchio è tra i massimi esperti mondiali di gastroenterologia, e, in particolare, un pioniere negli studi sulla malattia celiaca. Professore emerito dell’Università di Napoli Federico II, ha a lungo studiato e lavorato a Zurigo, ed è autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche. Medaglia d’oro ai ‘Benemeriti della Scienza e della Cultura’, è stato Presidente della European Society for Pediatric Gastroenterology and Nutrition, che ha contribuito a fondare. Membro di numerose riviste scientifiche internazionali, ha ricevuto attestati prestigiosi in tutto il mondo per la sua lunghissima attività di ricercatore e di clinico.
    Presente in varie edizioni delle ‘Due Culture’, onora di un’antica consuetudine il mondo di Biogem.

        Professore, lei è stato tra i primi medici napoletani a credere in un rapporto di forte interconnessione tra ricerca e clinica, ed è stato anche tra i primi a puntare su un’ampia formazione all’estero. Cosa o chi l’ha spinta in queste direzioni?
    Da studente ho frequentato l’Istituto di Biochimica dell’Università ‘Federico II’ di Napoli, retto allora dal professore Gaetano Quagliariello, una delle figure storiche della biochimica napoletana ed italiana, e poi dal professore Francesco Cedrangolo. Ritengo fondamentale, per un medico, avere una formazione di ricerca, e la ricerca di base allora era in gran parte una ricerca biochimica. Poi, laureatomi e completati gli studi all’Istituto di Biochimica, andai in Svizzera, dove ho trascorso gli anni cruciali della mia vita e della mia formazione professionale. All’epoca, la scuola di pediatria svizzera era una delle migliori d’Europa, e il suo capo era una figura che aveva grande rilievo nella pediatria internazionale, il professore Guido Fanconi, presso il quale ebbi la fortuna di studiare. Successivamente, sono stato coinvolto in una storia appassionante e perciò sono rimasto al ‘Kinderspital’ (Ospedale dell’infanzia) di Zurigo per svariati anni.

    Perché proprio a Zurigo?
    All’epoca, in alcuni centri europei, come Zurigo, Parigi o Londra, si faceva la vera ricerca clinica, che allora era tutto per la pediatria. Il ricercatore clinico era, in particolare, colui che, partendo dall’osservazione del malato, studiava le novità emergenti in ambito biologico, indirizzando la ricerca di base.
    Ho avuto la fortuna di lavorare in quel periodo con il professore Andrea Prader, che allora era l’aiuto del reparto del ‘Kinderspital’ di Zurigo, nell’ambito di una scuola organizzata dal punto vista strutturale in funzione del malato, nella quale la figura del ricercatore clinico era tutto.

    E poi, gli studi sulla gastroenterologia pediatrica?
    Ho avuto esperienze davvero particolari nel reparto dove lavoravo, come vedere i primi casi clinici di malattie nuove, che poi hanno preso il loro nome dei pediatri che le hanno scoperte. In un secondo momento, durante la mia permanenza in quel reparto, c’è stata la svolta della mia vita. Curavo, infatti, come giovane assistente, un bambino che aveva una forma di diarrea di cui non si riusciva a capire la causa. Fino a quando non comparve su ‘Lancet’ un lavoro del gruppo olandese di Wejers, che descrisse la diarrea da deficit di saccarasi. Il bambino che seguivo aveva, invece, diarrea non solo quando ingeriva lo zucchero (saccarosio), ma anche quando mangiava amido. Furono gli studi su questo paziente che portarono a identificare l’intolleranza all’amido per deficit dell’enzima che degrada i punti di ramificazione dell’amido, la isomaltasi. Da allora, ho iniziato ad occuparmi delle diarree da deficit di disaccaridasi intestinali, che costituirono il mio campo di ricerca per molti anni, e così ho contribuito alla nascita e allo sviluppo della gastroenterologia pediatrica. Il mio interesse per la gastroenterologia nacque, quindi, dall’osservazione clinica.


    Tutti le riconoscono il ruolo indiscusso di caposcuola, a Napoli, di una squadra di grandi pediatri. Quali virtù ha dovuto mettere in campo per ottenere un risultato così straordinario?

    Alla mia venuta a Napoli, da Zurigo, quasi tutti i miei collaboratori, grazie alla loro attività di ricerca e all’interesse suscitato dagli studi nella città svizzera, furono accettati in una serie di scuole prestigiose all’estero: Armido Rubino, Generoso Andria e Annamaria Staiano in America; Luigi Greco, Riccardo Troncone ed Enzo Poggi in Inghilterra; Pietro Vajro in Francia etc……

    In seguito, ebbi la grande fortuna di operare in un momento nel quale l’Università di Napoli doveva arruolare medici per la nascita di una nuova struttura sanitaria, il ‘Secondo Policlinico’. Quando i miei collaboratori tornarono dai loro studi all’estero, nell’ambito delle varie super specialità allora nascenti, furono nelle condizioni di lavorare nell’Università ‘Federico II’. Sono così nate, a Napoli, le super specialità pediatriche, e anche la scuola di specializzazione in pediatria, ancora oggi di ottimo livello. Posso dire che la cosa migliore che sono riuscito a realizzare nella mia vita è stata la formazione di un gruppo di giovani che hanno ben volentieri colto la possibilità di specializzarsi all’estero, nei vari campi delle super specialità pediatriche. E questo all’epoca era una cosa abbastanza inusuale.

    Siamo sempre stati convinti che la ricerca ha un ruolo molto importante nella formazione e nell’attività clinica. Dalla ricerca il clinico impara infatti a ragionare in modo corretto. Ho provato a seguire il modello rappresentato dai miei maestri e questo mi è stato sempre di grande aiuto. Ho quindi cercato di scegliere i collaboratori in base a criteri di merito: solo così si dà fiducia ai giovani e forza alle istituzioni. E ho lavorato con loro, apprezzandoli e valorizzandoli, convinto che tutti hanno sempre degli aspetti positivi, anche se nessuno è ovviamente perfetto. Compito del capo è quello di valorizzare tali virtù, facendo in modo che lo stare insieme rappresenti un continuo scambio culturale, nell’interesse del malato.
    Quando si è molto giovani, si vuole il successo, man mano che ci si invecchia si capisce che la vita vale per quanto si riesce a dare agli altri. E poi è indispensabile che il pediatra impari a farsi carico globale del bambino e della sua famiglia, per quanto possibile.

    Ci dettaglia la sua posizione sui vaccini anti COVID-19 in età pediatrica, in particolare per i più piccoli?
    Va consigliato di praticare le vaccinazioni secondo le raccomandazioni via via formulate dagli organismi ufficiali preposti alla cura e alla ricerca.

    Un celiaco va incontro a rischi supplementari a contatto con questo virus?
    Non credo, ma sul punto si sa ancora molto poco.

    I suoi ultimi studi sono concentrati sull’alimentazione dei bambini in fase di svezzamento e sull’influenza positiva di un approccio precoce alla dieta mediterranea nella loro vita adulta. Ci concede qualche dettaglio?
    Abbiamo completato uno studio, realizzato con i pediatri di famiglia della Campania, nel quale è stato dimostrato che lo svezzamento con alimenti naturali per adulti, tipici della dieta mediterranea, aumenta, nei primi anni di vita, l’aderenza del bambino a questa stessa dieta, influenzando beneficamente la flora batterica intestinale, rispetto allo svezzamento tradizionale con ‘baby foods’. Si potrebbe tentare in tal modo di prevenire o ritardare alcune malattie infiammatorie croniche del bambino e dell’adulto, migliorandone le abitudini alimentari.

    Anche i pediatri, in questi tempi, scontano un certo ‘distacco’ dal paziente, causato non solo dalla pandemia, spesso rimproverato ai medici di base. Ritiene ci sia una differenza sostanziale tra le varie aree del Paese?
    Per avere un quadro attuale del problema delle differenze nel campo dell’assistenza pediatrica tra le varie aree del Paese, suggerisco di rivolgersi ad un pediatra napoletano, il professore Paolo Siani, che, proprio per affrontare questi problemi e tentare di correggerli, è fortemente impegnato nel Governo attuale del Paese. Vorrei solo dire che in Campania c’è una buona pediatria di famiglia. Più in generale, la pediatria di famiglia in Italia segue i bambini dalla nascita e rappresenta quindi una garanzia importante per la corretta assistenza di questi particolari pazienti.

    Ci parla del suo sogno di unire sempre di più clinica e ricerca?

    Credo che la ricerca sia necessaria non solo per la formazione, ma anche per l’attività clinica del medico. Si potrebbe perciò immaginare che in un prossimo futuro si possa potenziare la ricerca pediatrica in Campania, fra l’altro dando la possibilità anche ai pediatri di famiglia, formati in tal senso dalle scuole di specializzazione, di svolgere ricerca clinica nella loro attività. La ricerca clinica è infatti il migliore collante che si possa immaginare per integrare l’attività assistenziale dei centri di riferimento universitari e ospedalieri con la pediatria sul territorio.

    Il suo maggiore successo clinico e il suo studio più brillante?
    Vorrei solo ricordare i nostri studi riguardanti l’identificazione della ipolattasia di tipo adulto e quelli sui meccanismi dell’azione lesiva del glutine nella celiachia.

    Quali sono gli svaghi intellettuali e i momenti di relax del professore Auricchio?
    Seguire, sulle più importanti riviste di ricerca clinica e di ricerca di base, le ultime acquisizioni di interesse per la salute del bambino. Fuori dalla medicina, mi rilasso molto con la musica sinfonica, sia a casa sia a teatro. Ho sempre amato le nuotate a mare, soprattutto ad Anacapri, e le passeggiate in montagna. Sono, inoltre, un appassionato della cucina tipica napoletana, e, più in generale, un convinto sostenitore delle tradizioni enogastronomiche, generalmente un buon compromesso tra gusto e salute.

    L’edizione di quest’anno delle ‘Due Culture’ avrà come tema principale ‘Arte e Scienze’. Quale rapporto lega lo scienziato Auricchio all’arte?

    L’arte e le scienze, sia pure con linguaggi molto diversi, nascono dalla necessità di comunicare con gli altri e, nelle loro esperienze più significative, hanno suscitato il mio più vivo interesse, aiutandomi a capire che il senso profondo della vita sta proprio in questi rapporti con la comunità umana.

    E il suo rapporto con Napoli?

    Ho investito tutte le mie capacità e le mie forze per migliorare lo studio e la cura del bambino a Napoli, scegliendo di vivere e lavorare in questa città, anche quando si sono aperte le porte di una promettente carriera accademica in Svizzera.

    Per concludere, vorrei dire che il ‘sistema’ messo su nella Pediatria della ‘Federico II’ produce cultura, della quale ciascuno si avvantaggia. Sono profondamente riconoscente al Signore Dio per avermi dato la possibilità di incontrare tanti ottimi collaboratori nella mia vita. Il sentimento prevalente che ho verso di loro è la riconoscenza per quello che abbiamo imparato insieme. Il sistema messo su in clinica pediatrica è eccellente, ma per farlo funzionare bisogna essere umili e disciplinati, avendo cura del metodo, nella consapevolezza che lavorare insieme è utile per tutti.

     

    Ettore Zecchino

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