Già professore ordinario di Filosofia Morale e Bioetica, insegna nelle Università degli Studi di Genova e Suor Orsola Benincasa di Napoli. Nel capoluogo ligure ha fondato l'Istituto Italiano di Bioetica, di cui è direttore scientifico. È membro, dal 1999, del Comitato Nazionale per la Bioetica. Tra le sue pubblicazioni: Etica e diritti degli animali, (Ed. Laterza, 1997); Alle origini dell'etica ambientale. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi (Dedalo, 2002); Bioetica senza dogmi, (Ed. Rubbettino, 2009 - Premio Le Due Culture 2010); Un'etica per il mondo vivente. Questioni di bioetica medica, ambientale, animale, (Ed. Carocci 2011); Uomo, Natura, Animali. Per una bioetica della complessità, Ed. Altravista 2016; Bioetica, Editrice Bibliografica 2022; con Franco Manti, Bioetica e biopolitica nell’orizzonte della complessità, University Press di Genova 2023.
Professoressa, il 2023 è stato un ‘mondo verde’?
Il bilancio non mi sembra particolarmente lusinghiero. Direi che, come genere umano, pur avvertendo una crescente preoccupazione per le tante e tanto evidenti criticità ambientali, sfociante anche in forme di autentica eco-ansia, non siamo stati capaci di sentirci, come siamo, una ‘comunità di destino’ e di seguire un’etica della responsabilità, adottando politiche conseguenti.
Quali approcci, non solo normativi, attualmente in essere, individua e promuove, su scala mondiale, come funzionali all’avvio di un percorso risolutivo del problema?
Per quanto riguarda l’Italia, sono soddisfatta per l’approvazione dell’art. 9 della Costituzione, che recepisce, al più alto livello normativo, l’esigenza di una non più rinviabile salvaguardia dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. Un indirizzo, purtroppo, recentemente contraddetto da alcune scelte territoriali in materia di parchi naturali e aree verdi.
Sul piano mondiale, la prospettiva più volte auspicata da eminenti giuristi di un Tribunale Internazionale dell’Ambiente, mi sembra acclarare la raggiunta consapevolezza della necessità di una non rinviabile planetarizzazione del problema. Basti pensare a una questione come quella, ormai antica, del disboscamento in Amazzonia, non certo riducibile, per la sua ‘enormità’, a responsabilità e competenze del solo Brasile o dei pochi Paesi confinanti. Renzo Piano invoca, molto suggestivamente, la necessità di un ‘’grande rammendo’’, facendo appello alla capacità umana di ‘ricucire’ il territorio con interventi a bassa invasività. Apprezzo molto questa concettualizzazione, intrisa di pazienza e umiltà.
E cosa le suggerisce la più recente speculazione bioetica?
Registro una crescente assunzione di responsabilità verso il mondo vivente, grazie anche al recupero di una visione originaria della disciplina, risalente al filosofo tedesco Fritz Jahr, che coniò il termine bioetica nel 1927 per indicare quel particolare aspetto dell’etica che concerne i rapporti che dovrebbero instaurarsi tra l’uomo, gli animali e le piante, ossia con l’intero mondo dei viventi. Si tratta, quindi, di superare l’idea, ormai scientificamente insostenibile, di un grande salto tra mondo umano e mondo non umano e di adeguare coerentemente il nostro comportamento nella vita quotidiana ai dati che le scienze ci offrono. Come dire, ‘Le 2ue Culture’ compresenti sin dalle origini. Un approccio dimenticato o attenuato negli anni successivi. Dobbiamo, quindi, semplicemente, superare l’oblio delle origini.
L’aspirazione a un mondo verde tendenzialmente unisce tutti, eppure, in politica, proclami formali a parte, si stenta a porre in cima all’agenda dei partiti un tema del genere. Come spiega questa contraddizione?
Il quadro è piuttosto composito. In Germania, ad esempio, a partire dagli anni Settanta, il partito dei Gruenen (verdi) è diventato una forza politica importante, grazie a un atteggiamento pragmatico, non paragonabile a certi fondamentalismi e purismi dei verdi di casa nostra. I Gruenen, in questo modo, sono riusciti ad imporre la tematica ambientale, come ineludibile. Nel nostro Paese, invece, si continua a considerare tale tematica come marginale anziché, come dovrebbe, trasversale ai diversi schieramenti e legata a fenomeni complessi, dall’economia al diritto. Complessivamente, su scala mondiale, la situazione non appare rassicurante.
Come giudica, al contrario, la notevole sensibilità mostrata sul tema dall’attuale Papa, e, più in generale, da molti intellettuali cattolici?
La considero una straordinaria presa di coscienza, anche se un po' tardiva. Un’eco-teologia francescana, non casualmente abbracciata da un Papa che ha scelto il nome del grande santo di Assisi. Una visione autenticamente teocentrica, in cui l’uomo è un amministratore, un custode del creato divino. Una vera rivoluzione, considerando che nella visione antropocentrica, storicamente dominante anche in ambito cristiano, l’uomo assume il ruolo del padrone. Papa Francesco, con la sua ‘Laudato sì’, ha quindi avuto il grande merito di ritrovare la strada di un’etica della cura del creato.
Relativamente a questo settore, ci fa il punto sul dibattito e le iniziative in corso in seno alle altre grandi religioni mondiali?
Per le grandi religioni monoteiste dovrebbe valere la stessa visione teocentrica di cui abbiamo già parlato, rinvenibile, comunque, sia nella Bibbia sia nel Corano. L’Induismo, con il suo concetto di comunità e fraternità tra i viventi, ci spinge, forse, ancora oltre. Non molto diversamente, nel Buddismo (che sia o meno considerabile una religione), l’etica della compassione avvolge l’intero ciclo della vita. Aspetti, quelli della fraternità e della compassione, per nulla estranei alla tradizione culturale occidentale, anche laica, come insegna l’Illuminismo e come conferma il celebre invito rivoluzionario alla libertà, alla fraternità e all’uguaglianza. Dovremmo, a mio avviso, parlare di fraternità terrestre, da sentire sul piano etologico, nel riconoscimento di una comune appartenenza al mondo animale, almeno in quanto esseri vulnerabili. Una fraternità acclarata scientificamente, pur nelle diversità, e che, d’altra parte, risente sempre meno dei presunti divari in ambito cognitivo, come la neurobiologia animale e vegetale inizia a mostrarci.
E che fine hanno fatto le tante fedi ‘ambientaliste’ post-sessantottine?
Non ho avuto mai particolari simpatie per questi movimenti simil new age, con il loro portato confusamente misticheggiante. Ammetto, tuttavia, che hanno comunque contribuito alla diffusione di una certa coscienza ecologica nelle grandi masse. Un discorso estensibile, al giorno d’oggi, a movimenti quali Fridays for Future e a figure come la giovane svedese Greta Thunberg. Un contributo ben più importante è stato dato, in ambito bioetico, dal pensiero della complessità, capace di teorizzare e mostrare le interazioni e correlazioni tra i viventi, nel quadro di un’ecologia delle azioni.
Attualmente le politiche ambientalistiche sembrano allargare il solco tra l’Occidente, sviluppatosi anche grazie ad approcci del passato piuttosto indifferenti o aggressivi, e il Sud e l’Est del mondo, affamati di crescita e, quindi, insofferenti alle autolimitazioni giudicate necessarie per il benessere globale. Come se ne esce?
Ho partecipato nel 1992 all’’Earth Summit’ di Rio de Janeiro e posso testimoniare che già allora il problema era molto avvertito. Negli anni si è sviluppata, opportunamente, la consapevolezza della possibilità di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, fondati sul concetto di qualità piuttosto che su quello, ancora oggi dominante, della quantità. Pensi, per fare solo un esempio molto noto in Occidente, all’approccio delle capacità di Amartya Sen, fondato sulla distribuzione dei beni e sull’effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani, quali la salute, la nutrizione, la longevità e l’istruzione. Diverse risposte e diversi approcci, legati anche al recupero delle tradizioni.
Professoressa, nei suoi scritti in materia, la sua attenzione, pur nell’ambito di una bioetica della complessità, ha privilegiato il mondo animale. Dobbiamo aspettarci un suo volume sull’etica delle piante?
Direi proprio di sì. Ritengo, infatti, che la neurobiologia vegetale sia un tema di straordinaria attualità. Espressioni come diritti delle piante, ormai in uso, meritano di essere chiarite e messe a fuoco, mettendole al riparo da rischi antropomorfici. Ad esempio, non mi sento di poter dare per acquisito che possa parlarsi di diritti delle piante. Non dobbiamo avere fretta di assegnare nuovi diritti, pur nell’auspicabile crescita, sul punto, di un’etica della responsabilità da parte dell’uomo.
Tra i grandi pensatori del passato che hanno posto il tema del mondo verde al centro dei propri studi, chi ha intravisto le problematiche e i rischi che oggi corriamo?
Con una certa audacia, direi che l’invio di Voltaire a ‘’coltivare il proprio giardino’’ possa considerarsi una visione precocemente ecologista. Trovo straordinario, più avanti nel tempo, il pensiero di Élisée Reclus. Ancora in pieno Ottocento il grande geografo francese ha infatti scritto che ‘’l’uomo è la natura che ha preso coscienza di sè stessa’’, preconizzando in tal modo un nuovo umanesimo ecologico capace di integrare i principi dell’etica umana con i nuovi doveri verso la natura.
Mi lasci ricordare, tornando a casa nostra, la Legge sulla tutela del paesaggio del 1922, nella quale Benedetto Croce, dopo una lunga battaglia politica, trasfonde la sua filosofia del paesaggio, legando quest’ultimo al concetto di patria, con tutta l’eredità monumentale, artistica e, in fin dei conti, culturale, che incarna.
Si può applicare, come alcuni sembrano volere, la categoria ‘ecologica’ anche a tematiche più strettamente bioetiche, quali, ad esempio, la maternità surrogata o l’ideologia gender?
Non mi sentirei di associarle. Nei miei scritti mi riferisco a tre diverse dimensioni della bioetica: bioetica medica-umana; bioetica ambientale; bioetica animale. Un nucleo unitario in questa tripartizione va ricercato, ma senza forzature. Come ci invita a fare il pensiero della complessità, il riconoscimento delle interrelazioni tra forme e aspetti del vivente non può significare confusione di diversi ambiti di ricerca, ciascuno dei quali dev’essere considerato nella sua specificità.
Nella grande diatriba in corso tra la maggioranza della comunità scientifica internazionale, che individua specifiche responsabilità umane per il dramma del surriscaldamento globale e chi, invece, considera il fenomeno non determinato dall’uomo, un approccio bioetico corretto quale metodo deve seguire?
Penso che la via mediana sia quella che una bioetica seria debba intraprendere. L'impronta ecologica dell’uomo non può essere negata e si dovrebbe suggerire un per-corso di etica della responsabilità, capace di dare all’uomo il sentimento e la consapevolezza del peso del proprio ruolo. Hans Jonas dimostra chiaramente che quanto più potere tecnologico si ha, tanto più questo deve essere governato in termini di responsabilità. La tecnologia, ad esempio, risolve molti problemi, ma ne crea anche di nuovi. Una tematica che, tra l’altro, si pone in maniera del tutto inedita in questi anni. Per la prima volta, infatti, quando si parla di impatto delle nostre politiche sulle generazioni future ci si riferisce a persone lontane da noi anche molte centinaia di anni nel futuro, chiaramente assenti dal tavolo delle trattative.
E dove si può individuare un minimo comun denominatore?
Ancora una volta in un’etica della responsabilità, segnata dalla prudenza, nel significato aristotelico del termine, e aperta sempre a una ragionevole speranza.
Ettore Zecchino