Professore emerito di Economia politica, Luigi Paganetto ha fondato, nell'anno accademico 1987-88, la Facoltà di Economia di Tor Vergata, a Roma, guidandola in un percorso scientifico e didattico, che, nei 20 anni successivi, l'ha fatta diventare, a giudizio generale, una delle più quotate sedi universitarie italiane ed europee. Particolarmente impegnato nell’ambito dell'economia internazionale ed europea, ha ideato, nel 1988, il CEIS (Centre for Economic and International Studies) e, insieme al premio Nobel Edmund Phelps, nello stesso anno, il ciclo dei ‘Villa Mondragone International Economic Seminar’, sui temi dello sviluppo e delle politiche per la crescita.
Nel 2008 ha fatto nascere la Fondazione Economia dell'Università di Roma Tor Vergata, impegnata, con il ‘Gruppo dei 20’, nel ‘Revitalizing Anaemic Europe’, e, in generale, sui temi di ‘policy’ come espressione della ‘terza missione’ dell'Università.
Vice-presidente del CNR nel 1996, diviene Commissario straordinario dell'Enea nel 2005, e poi Presidente dello stesso ente dal 2007 al 2009. Rappresentante italiano presso l'OCSE, nel comitato per la politica economica, dal 2008 al 2011 è Segretario generale dell'International Economic Association.
Dal 2018 al 2021 è stato Vice Presidente di Cassa Depositi e Prestiti.
Professore, ci regala una sua opinione sul PNRR e sulla sua ‘attuazione’ in Italia?
La mia convinzione è che ci troviamo di fronte ad un progetto irrinunciabile e di grande importanza per lo sviluppo del Paese, che non indica, tuttavia, in maniera esplicita, la visione organica che deve presiedere all’integrazione tra i singoli progetti che sono stati selezionati. L’occasione della centralizzazione dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con quelli del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e con quelli del REPowerEU in materia di energia sicura, sostenibile e a prezzi accessibili per l’Europa, offre l’occasione per una revisione che metta in chiaro gli aspetti strutturali del progetto.
Le nuove stime sulla crescita e sulla riduzione del debito pubblico ci autorizzano a ben sperare?
Abbiamo di fronte, come suggerisce il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un percorso che per l’economia mondiale si presenta poco dinamico, con una tendenza alla stazionarietà degli investimenti. Anche per questo motivo, il ruolo del PNRR è centrale.
Sulla crisi economica ancora in corso in Occidente ha inciso di più la pandemia o la guerra in Ucraina?
Credo che dobbiamo risalire alla crisi del 2008, la prima occasione in cui si è verificata una caduta significativa degli investimenti negli Stati Uniti e in Europa, per trovare un filo di continuità nell’andamento stazionario dell’economia, che da quel momento è diventata una tendenza e che è ancora in atto. La guerra in Ucraina ha aggiunto a questo quadro un cambiamento importante nella struttura degli scambi commerciali e finanziari tra le grandi aree del mondo, creando, di fatto, blocchi contrapposti, che non sono di certo funzionali allo sviluppo globale.
Relativamente a questa fase storica, ritiene plausibile parlare di una stabile finanziarizzazione dell’economia mondiale?
Anche per gli aspetti finanziari è in corso una contrapposizione tra il blocco occidentale e quello rappresentato da Cina, Russia e da una parte dei Paesi emergenti, che hanno da tempo avviato processi di integrazione tra loro, attraverso accordi commerciali e finanziari. Questi ultimi stanno assumendo un ruolo crescente, in conseguenza della volontà, espressa da Cina e Russia, di creare rapporti di scambio non più basati sul dollaro. Si tratta, tuttavia, di un processo lungo e dagli esiti incerti.
A quale modello di economia reale bisogna invece guardare, secondo lei, per uscire dalla crisi?
Ipotizzarlo oggi è difficile, ma dovremmo puntare su un aumento della cooperazione internazionale, fondamentale anche per scongiurare la prevalenza dei soli aspetti finanziari.
E l’Europa, in particolare, quali contromisure dovrebbe adottare?
L’Europa si sta muovendo con decisione su vari fronti, come dimostrano le scelte in materia di politiche industriali riguardanti i microchips, e, in generale, le materie prime sensibili. Tali orientamenti nascono dalla consapevolezza raggiunta in merito al rallentamento della produttività, che ha messo l’Europa dinanzi ad un problema di ritardo competitivo nei confronti del resto del mondo.
Si è passati forse da un primato assoluto della politica a una sua subalternità alla finanza?
Nel caso dell’Europa siamo di fronte soprattutto a una modifica dei rapporti tra Stato e Mercato, conseguenza della presa d’atto della crisi del 2018, della pandemia e della guerra in Ucraina. Gli Stati nazionali intervengono di più rispetto al recente passato, come è previsto, ad esempio, dal programma recente di politica industriale europea, che consente un allentamento delle regole in materia di aiuti di stato. Questo cambiamento in materia di politica economica fa nascere questioni controverse circa gli effetti che ne possono derivare, sia per il rischio di un ulteriore aumento delle disuguaglianze, sia per le crescenti difficoltà che potrebbero presentarsi nel coniugare Stato sociale ed Economia.
Il dibattito è in corso. Quello che è certo è che in questa fase non si può rinunciare a fare scelte che favoriscano meccanismi innovativi all’interno del processo economico. Allo stesso tempo, si deve prendere atto dell’invecchiamento crescente della popolazione europea e dell’esigenza di guardare al fenomeno dell’immigrazione con occhi diversi da quelli del passato. C’è infatti un rapporto stretto tra popolazione residente, occupazione e crescita, che non va mai dimenticato.
Cosa butta a mare della costruzione comunitaria e cosa ritiene debba essere, invece, solo migliorato?
Molto si può fare per migliorare il funzionamento dell’Unione Europea, a partire dal meccanismo decisionale, spesso troppo rallentato dal principio dell’unanimità. Bisognerebbe inoltre aggiungere alle competenze dell’Unione quella dell’offerta di beni pubblici europei, a cominciare da salute, scuola e formazione. Lo chiedono con forza crescente gli stessi cittadini europei.
In materia di politiche energetiche, se la sente di dare alcuni consigli mirati all’attuale Governo italiano?
Mi sembra importante che il nostro Governo definisca, con un piano energetico, il sentiero che intende percorrere, i suoi modi e i suoi tempi. Va certamente confermata la spinta a favore delle energie rinnovabili. Al tempo stesso, è necessario, per il medio periodo, rendere disponibili le quantità di gas ritenute necessarie fino al momento programmato di abbandono delle fonti fossili. Da questo punto di vista, può essere importante avere disponibilità sufficienti di LNG (Liquid Natural Gas).
Indispensabile è anche definire scelte congrue in merito alla domanda di energia, rispetto all’offerta disponibile. In quest’ambito va tenuto presente che l’energia consumata si divide, principalmente, in un 30% da destinare all’industria, un 30% ai trasporti e un 30% agli edifici. Lo spostamento verso l’elettrico del consumo di energia negli edifici e nell’industria renderebbe ovviamente più chiara la transizione che il Governo intende realizzare.
La scelta di prospettiva europea sull’auto elettrica offre infine una chiara indicazione, al netto delle differenze di opinione espresse sull’argomento, di una decisione che ormai è definita, con l’accordo di tutti i Paesi.
Come giudica la proposta di riforma fiscale al centro del dibattito politico?
Ritengo che su questo si sia espresso il Parlamento, con un atteggiamento convergente tra maggioranza e opposizione, nella Commissione che ha redatto il testo, oggi all’attenzione del dibattito pubblico. Non credo sia possibile dare un giudizio fino a quando non saranno conosciuti, oltre ai principi generali, anche quelli che stanno a fondamento di tutte le questioni presentate nella proposta del Governo. Va aggiunto un punto, che è legato all’importanza della riforma fiscale e di quella del bilancio pubblico. Non bisogna infatti dimenticare che contano molto le risorse dedicate ai servizi pubblici e alla loro disponibilità per tutti i cittadini. Scuola, salute, sanità e trasporti sono importanti quanto la riforma fiscale nel definire l’equità sociale.
E quella della giustizia, certamente non priva di risvolti economici?
La riforma della giustizia è una priorità, che riguarda non solo il cittadino, nei suoi rapporti con il corpo sociale, ma anche le imprese, che devono poter contare su tempi brevi e sulla certezza del diritto come condizione essenziale per lo stesso agire economico.
Il ‘suo’ ormai pluridecennale ciclo di seminari internazionali a Villa Mondragone, sui Castelli Romani, ha coinvolto tanti Premi Nobel e illustri economisti. Quale incidenza ha avuto sull’economia teorica e applicata nel nostro Paese?
Abbiamo tracciato, lo scorso anno, una sorta di bilancio scientifico e siamo arrivati alla conclusione che è stato particolarmente fruttifero l’impegno sulla questione dello sviluppo ‘endogeno’. Il Premio Nobel Phelps ha sottolineato come questo sia un tema centrale per l’attività economica, ricordandone l’importanza in un suo recente volume, che quest’anno presenterà a Villa Mondragone.
E il ‘Revitalizing Anaemic Europe’, altra sua prestigiosa creatura?
Il progetto nasce dalla constatazione che, anziché esercitarsi soltanto in una critica permanente sull’Europa, sia importante contribuire al miglioramento della sua ‘governance’, sia monetaria, sia fiscale. Il ‘Gruppo dei 20’, che ha portato avanti questo progetto, è fatto non di soli economisti, ma di accademici, managers pubblici e privati e di esperti internazionali, indipendenti dalla politica. Tutti costoro hanno cercato di affermare nei fatti questa volontà che anima il gruppo, con una assai ampia attività di pubblicazioni scientifiche e con numerosi documenti programmatici.
Andando ancora più indietro negli anni, ci racconta la grande epopea dell’Università di Tor Vergata e della sua Facoltà di Economia?
Fu una scelta difficile, perché la Facoltà di Economia non era prevista dallo Statuto dell’Università. Arrivai come professore di economia politica nella facoltà di giurisprudenza e mi resi subito conto che la grande novità rappresentata dalla seconda università di Roma non poteva mancare di esprimersi anche attraverso la fondazione di una facoltà di economia. Nonostante le difficoltà istituzionali e finanziarie (non erano previste risorse per le strutture e per il personale docente e amministrativo e neanche per l'acquisizione del materiale didattico e scientifico necessario), riuscimmo ad andare avanti, realizzando, attraverso un finanziamento del Fondo investimento e occupazione, la struttura che oggi ospita i circa mille studenti che si iscrivono ai corsi ogni anno.
La scelta decisiva fu quella di puntare su un nuovo modello di istituzione, caratterizzato dalla grande attenzione alla capacità di formare giovani sui temi emergenti dell’economia, con la capacità di applicarsi alle scelte da fare sia nelle aziende sia nelle pubbliche amministrazioni. In quest’ottica, fu molto importante essere partiti in contemporanea con i seminari di Villa Mondragone, che hanno rappresentato un modo per realizzare quell’internazionalizzazione degli studi che ritenevo e ritengo, ancora oggi, fondamentale. Il patrimonio di idee e di competenze scientifiche e gestionali è stato così travasato, anno dopo anno, nei corsi della facoltà.
L’economia è una disciplina scientifica di carattere matematico, ma fortemente ancorata al mondo umanistico. Forse più di altre deve prediligere un approccio ‘biculturale’?
In economia oggi è sempre più evidente che l’approccio corretto deve essere attento anche a discipline apparentemente lontane. Basti pensare alla teoria delle decisioni, che comprende la matematica, l’economia in senso stretto e la sociologia.
Nella sua formazione, quali maestri in carne e ossa o sui libri mette ai primi posti?
Ho sempre cercato di guardare ai maestri portatori di idee nuove e l’attività che abbiamo svolto a Tor Vergata lo dimostra, per la presenza di tutti i principali filoni di pensiero all’attenzione dei docenti e dei ricercatori.
Rubando qualcosa al suo privato, ci confida le passioni di una vita?
Ho praticato molti sport, ma la vera passione è stata la vela, che mi ha dato ciò che in più può dare il mare, dalla sfida agli elementi, alla possibilità di contemplare il sorgere o il tramonto del sole lontano da terra.
E il suo rapporto con la natia Genova?
In questa mia passione per il mare c’è una probabile componente genetica. Provengo, infatti, da una famiglia di gente che ha lavorato sul mare e per il mare.
Come giudica la tendenza italiana a scegliere spesso i cosiddetti tecnici per la guida dei ministeri economici o di interi governi?
Credo che quando si assumono persone estranee alla politica nel Governo del Paese, automaticamente per queste cessa, o almeno si appanna, la funzione di tecnici, e prevale quella di politici. In questo senso, la differenziazione tra tecnici e politici mi sembra un tantino oziosa.
Quali tipi di rapporti possono fruttuosamente instaurarsi tra un economista e un partito politico?
Il rapporto più genuino è quello che fa nascere visioni e suggerimenti generali, utili alle scelte politiche.
L’ideologia pesa di più in politica o in economia?
L’ideologia fa parte di quelle cose che, secondo Keynes, dobbiamo cercare di disboscare negli angoli della nostra mente. Quanto meno serve essere consapevoli del ruolo che l’ideologia ha, tenendola ben distinta dalla ricerca scientifica, che deve essere libera.
Il nostro secolo sarà asiatico o occidentale?
Mi auguro sia, come è stato in passato, il risultato di un confronto di visioni e di idee, capace di portare alla reciproca acquisizione dei principali messaggi delle ‘due culture’.
Bucatini all’amatriciana o trenette al pesto?
Nello stesso spirito, entrambi. Ma ben distinti tra loro.
Ettore Zecchino