I protagonisti delle due culture

    Carmen Lasorella

    Carmen Lasorella

    Prima giornalista italiana a ricoprire il ruolo di inviata di guerra per la TV e tra le prime a condurre un TG, Carmen Lasorella ha una carriera prestigiosa e poliedrica alle spalle. Orgogliosamente lucana di origine, ma residente da decenni a Roma e cittadina del mondo, è stata per decenni una colonna della televisione pubblica italiana, anche in ruoli dirigenziali, prima di passare, per qualche anno, alla guida dell’emittente nazionale di San Marino. Autrice di celebri reportage, soprattutto di ‘esteri’, è stata anche corrispondente in Germania e nei Paesi dell’Europa orientale, oltre che autrice e conduttrice di programmi e apprezzata saggista e opinionista per la carta stampata.

    Ha moderato alcuni tra i più interessanti dibattiti alle ‘Due Culture’ di Biogem.

    Direttrice, come si vive una guerra a ‘distanza’?

    Direi, male. Le guerre scavano abissi di disumanità, si somigliano, pur essendo diverse. E’ lo stesso orrore, che pure ti sorprende sempre, perché non riesci ad accettare che si arrivi ad una ferocia così inaudita, con un campionario di armi che ignora i divieti, mentre la prevaricazione sui più deboli, diventa la norma. Ho raccontato la guerra a cavallo tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. Fino all’ultimo conflitto di Beirut, nel 2006. Ho fatto questo lavoro per 15 anni. In Africa, in Medioriente, nel Vicino Oriente, in Centro America, nei Balcani, in Asia. E’ stato un lavoro duro. Ho vissuto il senso d’impotenza, la rabbia, la frustrazione, ma ogni volta toccavo i fatti: sono stata nei luoghi giusti al momento giusto. Il conto poi lo pagavo a casa, al rientro: ci voleva tempo per recuperare. Il sonno spesso non arrivava o si interrompeva all’improvviso. Oggi, che non sono più sul campo, cerco di fornire un contributo di analisi. Un giornalista non va mai in pensione.

    L’Ucraina è una delle poche realtà da lei non ‘testimoniata’ in prima linea. Quali le analogie e le differenze con i tanti teatri bellici conosciuti in passato?

    E’ un conflitto nel cuore dell’Europa. Non è il primo dalla Seconda Guerra mondiale, ci sono stati il Kosovo, la Bosnia, oramai 30 anni fa. Erano guerre feroci come questa, con aggressori ed aggrediti, ma la guerra in Ucraina, sicuramente, è la più rappresentata dai media, a mia memoria. E’ tutti i giorni nelle nostre case, è uno scenario di prossimità da ogni punto di vista. A molti fa paura. Il rischio nucleare resta sullo sfondo, lontano, ma il pericolo di un allargamento del conflitto potrebbe diventare vicino. Ancora una volta, i territori ospitano le guerre degli altri, come in Siria e in altri contesti, del resto. Ha creato stupore in tutti la resistenza e il coraggio degli ucraini, cui si è aggiunta la capacità di grande comunicatore del Presidente Zelensky. Per un’Europa, diciamo pure infiacchita, è stato uno shock, un richiamo ai valori, all’orgoglio, alla coerenza. E’ evidente che dovranno cambiare le relazioni internazionali, nella prospettiva del multilateralismo. A tale proposito mi auguro che non si insista nell’umiliazione del nemico, preludio alle maggiori tragedie della storia.

    Come pensa se ne possa uscire?
    Con il negoziato, anche se sarà difficile creare le condizioni di una pace duratura.

    E riguardo all’altra ‘guerra’ (al COVID-19) ormai biennale?
    La pandemia, ancora in corso, al di là delle teorie complottiste, ha confermato che nell’era dell’antropocene, l’uomo interviene a modificare la realtà, in tutti i campi, anche in quello della scienza. Con il tempo, forse, saranno resi noti i dettagli su questo virus potenziato, che continua a mutare. Questo momento così critico ci ha cambiato, abbiamo meno certezze. Ralph Dahrendorf rifletteva su come, diventando super uomini, diventiamo disumani. Lo penso anch’io, ma resto ottimista sul potenziale del capitale umano. Quanto al contrasto alla pandemia, non si può che estendere a tutti, su scala mondiale, il diritto alla prevenzione e alla cura, evitando, al tempo stesso, le fughe in avanti di una certa pseudo-scienza irresponsabile.

    Ci parla del ruolo della comunicazione in questi due così diversi conflitti?
    Il tratto comune, a mio avviso, è l’infodemia. Un eccesso di informazione, che non aumenta la conoscenza, ma contribuisce alla confusione. C’è stato un approccio ‘terroristico’, troppe volte, con poca attenzione alla resilienza ed ai diritti soggettivi dei cittadini. Il Covid è diventato un appannaggio del governo e degli esperti, proposti di continuo, nella diversità degli approcci. Per mesi si è parlato solo di Covid, dimenticando che il mondo continuava a girare e con il mondo si è perso il contatto. Un fenomeno quasi tutto italiano, dove il racconto della pandemia è stato inoltre pieno di lacune, costruito sulle veline, sulle conferenze stampa, con i giornalisti, che si limitavano a passare i comunicati ufficiali. Gli inviati, che hanno cercato un riscontro a quanto veniva dichiarato, sono stati davvero pochi. Personalmente, sono molto critica in proposito.
    Anche il racconto sull’Ucraina, come dicevo prima, ha raggiunto livelli mai conosciuti in passato, con riferimento ad una guerra. In questo caso, tuttavia, l’eccesso non dispiace. Meglio avere quanti più occhi e voci pronti a testimoniare quello che accade, piuttosto che silenzi o indifferenza. Conta però la qualità del racconto e l’esperienza. Una volta, sugli scenari internazionali arrivavano in pochi: era la solita sporca dozzina che continuava ad incontrarsi nei punti caldi del mondo. Oggi partono ragazze e ragazzi, che spesso appaiono disorientati dinanzi a quello che incontrano. Nel mestiere dell’inviato servono lucidità, contatti, fonti attendibili, diverse, per non subire la propaganda. La tv generalista italiana ( non parlo delle ‘Tv all news’ ) sta fornendo una copertura quotidiana della guerra incredibile, sicuramente, più di quanto accade in altri Paesi europei, anche nella stessa Germania, che conosco abbastanza, avendoci lavorato.

    La sua luminosa e molto varia carriera ha incrociato solo lateralmente il mondo delle scienze. Quali caratteristiche considera peculiari del giornalismo scientifico?
    Il rigore, la competenza, la preparazione, e, di conseguenza, la capacità di utilizzare un lessico appropriato. In generale, il giornalismo scientifico, pur mantenendo le caratteristiche generali del nostro mestiere, richiede una formazione specifica.

    Le ‘Due Culture’ di quest’anno hanno come tema principale ‘Arte e Scienze’. Questo connubio cosa le fa venire in mente?
    L’arte non ha bisogno di mediazioni. Goderla è un dato immediato. Al tempo stesso, tutti confidiamo nella scienza per la prospettiva di un mondo migliore. Insieme, possono regalarci bellezza e benessere, intesi come capacità di costruire un futuro migliore.

    Quali progressi nota nel Mezzogiorno in questi ultimi anni?
    Al netto di qualche eccezione, temo che il Mezzogiorno abbia perso il treno dello sviluppo. La classe politica meridionale, che come diceva De Rita, non ha più classe, rimane prigioniera di micro-interessi territoriali, immobile nelle solite logiche clientelari e parassite, incapace di visione, inerte verso il futuro. In Germania, il gap tra Ovest ed Est è stato colmato in 30 anni, in Italia, a 150 anni dall’Unità, il divario si è allargato. Ero a Berlino negli anni successivi all’unificazione ed ho potuto seguire e raccontare quanto stava accadendo. I tedeschi hanno avuto ed hanno messo in pratica un’intuizione geniale: quando si è in ritardo bisogna ricorrere agli acceleratori. Nella Germania dell’Est sono stati dunque creati dei centri di eccellenza, soprattutto poli di ricerca, che hanno fatto miracoli. Colmando i divari sociali, culturali, economici, politici, gli Ossi si sono avvicinati ai Wessi ed hanno dimostrato, che una pianificazione intelligente e lungimirante abbatte gli ostacoli. I tedeschi hanno puntato sugli investimenti nella ricerca scientifica, mettendo al centro l’innovazione e questo approccio ha mosso i cervelli e le tasche, con risorse pubbliche e private. Si sono promosse best practices. Si è realizzato un effetto contagio, in positivo.

    Cosa si può fare per migliorare ulteriormente lo stato delle cose?

    Credo che i cittadini debbano credere di più nei propri diritti , ma anche nei doveri, a cominciare dal momento del voto. E’ indispensabile il rinnovamento politico. L’elettore deve imparare a scegliere. A seguito di ciò, credo, deriverebbe quasi automaticamente la formazione di nuove classi dirigenti, più adeguate alle sfide del presente, per fare futuro.

    Da pioniera dell’emancipazione femminile intellettuale e professionale in Italia, ritiene che il nostro Paese sia ancora indietro nel percorso verso la piena parità?
    Sicuramente. Siamo indietro rispetto a molti Paesi europei. Pensando solo al tema del lavoro, dobbiamo considerare che nel Sud non si arriva al 30% di donne lavoratrici, mentre l’Italia si ferma al 49%. Il famigerato soffitto di cristallo non ha reso possibile, da noi, un percorso in linea con il nostro tempo. Nella crisi del lavoro, si sacrificano con miopia le donne e i giovani. Guardare alle donne, che ce l’hanno fatta va bene e fa bene, ma non basta. Il cambiamento si misura sul pil pro-capite, che sarebbe molto più alto, se si impiegasse doverosamente la risorsa-Donna.

    Cosa pensa delle ‘quote rosa’?
    In passato, ero contraria, non lo sono più. Serve un “radical-shift”. Un sistema declinato al maschile si smonta con la volontà degli uomini e delle donne. Insieme. Dunque, le donne devono essere più numerose nei ruoli che contano per poter pilotare il cambiamento. Grazie alle quote rosa, c’è una possibilità, che accorcia i tempi.

    Recentemente ha ‘lambito’ la politica attiva nella sua Basilicata. Esperienza definitivamente chiusa?
    Mancavo dalla vita lucana dai tempi del liceo. Negli anni, tornando solo per le visite ai miei genitori, avevo continuato a custodire un’immagine romantica di quel territorio. Ho ritenuto che fosse necessario entrare in quella realtà e viverla per provare a capire. Parliamo di un contesto, purtroppo in fondo a tutti gli indicatori sociali ed economici del nostro Paese e dunque dell’Europa. Quello che ho incontrato è stato un mondo legato al passato, indifferente al senso della sfida , prigioniero di una mentalità rassegnata, che giustifica perfino i privilegi, dove si accetta che i diritti vengano concessi dal politico di turno. Le qualità del popolo lucano restano, ma in una società ‘infiacchita’ e purtroppo povera di capitale umano competitivo. Ho capito, che non potevo fare niente in quel momento. Mancavano le condizioni per impegnarsi. Tuttavia, da donna del Sud, sento fortemente le mie radici, non mancherò di dare il mio contributo se servirà, affinché le cose cambino. Ho compreso, però, che bisogna “costruire” il risveglio, bisogna “creare” le condizioni giuste. Serve un lavoro di squadra, con persone preparate e decise, che si impegnino nella “coltivazione” della fiducia. La necessità del cambiamento va condivisa e alimentata.

    Si è mai rivista in qualche ‘inviato al fronte’ della grande letteratura e del grande cinema?
    Ho avuto il privilegio di conoscere Tiziano Terzani ad Hong Kong, nel 1997 in occasione dell’Handover dall’amministrazione britannica a quella cinese. Ho sempre ammirato Terzani, un uomo che ha vissuto e lavorato cercando la verità, un uomo che ha accettato il cambiamento, dovunque e sempre. Un uomo, che quando ha incontrato il cancro, ha indagato anche la trasformazione che stava intervenendo nella sua vita, spostando la ricerca dal mondo all’interno di se stesso.
    Ho amato molto Ernest Hemingway per il suo modo di interpretare l’esistenza in maniera epica, travolgente, perfino eroica, mantenendo però la prospettiva del racconto e della testimonianza.
    L’amico di una vita è stato, invece, il collega Giorgio Torchia, inviato storico de ‘Il Tempo’, con il quale per anni abbiamo ragionato della grande politica internazionale, spesso con opinioni divergenti, fino a volte allo scontro. Un’esperienza vivificante, interrotta dal cancro.
    Quanto al cinema, rimanendo sui temi del giornalismo, mi vengono in mente ‘Quarto Potere’ di e con Orson Wells, penso ad Humphrey Bogart: ‘E’ la stampa, bellezza!’, ma non posso rinunciare ad ‘Urla del Silenzio’, ambientato nella Cambogia di Pol Pot. Lo considero un film bellissimo, mi ha dato forti emozioni. Ha raccontato senza enfasi l’orrore, che porta la guerra e la vita degli inviati sul fronte.

    Un cibo e un vino della memoria capaci di rilassarla?
    Un bicchiere di Aglianico del Vulture da abbinare al Caciocavallo, con la cicoria di campo.

    E un brano musicale?
    Ho studiato pianoforte e amo la musica classica, ma anche il Jazz. In questo momento mi viene in mente la ‘Patetica’ di Beethoven, che è un distillato di armonia, pieno di forza.

    Più in generale, le sue passioni extra-professionali?
    Soprattutto lo sport. Sono stata una campioncina regionale di atletica, ho giocato nella nazionale juniores di pallavolo, poi basket, sci, tennis. Amo andare a cavallo ed ho due motociclette e una bici.

    Progetti per il futuro
    Sto scrivendo un romanzo.

     
     
    Ettore Zecchino
     
     
      
     
     
     
     
     
     

     


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