Invito alla lettura

    Neuroethics and cultural diversity

    Frutto di un lavoro di circa tre anni, 'Neuroethics and cultural diversity' (Neuroetica e diversità culturale) è un volume curato dal responsabile dell’area di Bioetica di Biogem Michele Farisco (editore Wiley-ISTE), scritto in lingua inglese, già disponibile nel formato e-book e, in pre-ordine, in quello cartaceo. Realizzata con il coinvolgimento di 20 autori, tra cui alcuni ‘padri fondatori’ della neuroetica, provenienti da tutti i continenti, l’opera si concentra sul rapporto tra riflessione neuroetica e diversità culturale, tema centrale nel dibattito internazionale. Il libro è, al tempo stesso, una riflessione generale sulla neuroetica, una disciplina ancora giovane, incentrata sugli aspetti etici delle neuroscienze, sia in riferimento alle crescenti conoscenze dei meccanismi cerebrali alla base delle nostre attività cognitive (incluse le scelte morali), sia in riferimento alle nuove tecnologie e applicazioni, terapeutiche e non terapeutiche, emergenti da tali conoscenze.

    ‘’La cultura – spiega Michele Farisco - è tra i fattori più importanti che stanno plasmando l’ancora ‘giovane’ neuroetica (ma il discorso vale anche per l’etica della scienza in generale), sia come disciplina scientifica sia come attività sociale”. ‘’Il tempo è tuttavia maturo” - scommette Farisco - “affinché la neuroetica vada oltre l’influenza di contesti culturalmente molto circoscritti, come quelli dell’Europa occidentale e del Nord America, nei quali si è originata”.

    Questo libro dimostra che culture diverse possono convergere nell’identificazione delle questioni principali sollevate dalle neuroscienze e dalle connesse tecnologie. I 17 capitoli che compongono l’antologia dimostrano, in particolare, che è possibile raggiungere un consenso sui problemi principali da affrontare, punto di partenza fondamentale per avanzare nella direzione di soluzioni condivise, convertibili in processi di deliberazione democratica.

    Nel dettaglio, la prima parte del testo, comprendente sei capitoli, è dedicata alla neuroetica come campo disciplinare. Kathinka Evers, che ha introdotto la cosiddetta “neuroetica fondamentale” più di 15 anni fa, sottolinea, ad esempio, la necessità di andare oltre la dicotomia classica tra “etica delle neuroscienze” e “neuroscienze dell’etica”. Si impone, quindi, la necessità di un’analisi dei concetti fondamentali “sfidati” dalle neuroscienze, come coscienza e libero arbitrio, nell’ambito di una ricerca fondata su una metodologia interdisciplinare.

    Nella seconda parte, strutturata in cinque capitoli, si analizzano le influenze culturali sulla neuroetica. Tra gli altri, la cinese Jie Yin offre un’analisi dell’etica del neo-Confucianesimo, soffermandosi sulla questione del “potenziamento morale”, ossia il tentativo di migliorare il comportamento morale attraverso strumenti farmacologici o tecnologici. A partire da questo tema specifico, l’autrice sostiene che la filosofia cinese può offrire importanti contributi al dibattito contemporaneo sull’etica applicata.

    La terza e ultima parte, consistente in sei capitoli, offre l’analisi di alcuni casi specifici. A titolo illustrativo, la statunitense Syd Johnson sviluppa un’approfondita riflessione sullo specismo antropocentrico e sull’eccezionalismo umano che, secondo lei, hanno segnato la riflessione neuroetica. Secondo l’autrice, in particolare, questa tendenza a ritenere l’uomo eticamente superiore rispetto agli altri esseri viventi va superata riservando adeguata attenzione alla questione della giustizia nella ricerca scientifica.

    Secondo il responsabile dell’area di Bioetica di Biogem, che non nega le grandi difficoltà incontrate lungo il percorso, ‘’al di là dei contenuti, pur eccellenti, sviluppati nel libro, la collaborazione di tante e tanto importanti voci del dibattito internazionale è di per sé un successo e, al tempo stesso, costituisce la premessa di ulteriori progressi verso una visione più condivisa dell’etica della scienza, troppo spesso segnata da pregiudizi culturali e visioni miopi”.

    M. Farisco (ed.), Neuroethics and cultural diversity, ISTE-Wiley, London 2023

     

    Indice dell’opera

     

    Preface

    Michele FARISCO

     

    Part 1: Neuroethics as a Field

    Chapter 1: Examining the Ethics of Neuroscience in Contemporary Neuroethics

    Cynthia FORLINI

    Chapter 2: Neuroscience of Ethics

    Georg NORTHOFF

    Chapter 3: Fundamental Neuroethics

    Kathinka EVERS

    Chapter 4: Diversity in Neuroethics: Which Diversity and Why it Matters?

    Eric RACINE and Abdou Simon SENGHOR

    Chapter 5: Neurofeminism in BCI and BBI Ethics as a Prelude to Political Neuroethics

    Mai IBRAHIM and Veljko DUBLJEVIC

    Chapter 6: Neuroethics as an Anthropological Project

    Fabrice JOTTERAND

     

    Part 2: Cultural Influences on Neuroethics

    Chapter 7: Neuroethics and Culture

    Arleen SALLES

    Chapter 8: Globalization of Neuroethics: Rethinking the Brain and Mind "Global Market"

    Karen HERRERA-FERRÁ

    Chapter 9: The Dilemma of Cross-Cultural Neuroethics

    Laura SPECKER SULLIVAN and Karen S ROMMELFANGER

    Chapter 10: Neuroethics in Religion and Science: Hume's Law and Bodily Value

    Denis LARRIVEE

    Chapter 11: How Would Neo-Confucians Value Moral Neuroenhancement?

    Jie YIN

     

    Part 3: Illustrative Cases

    Chapter 12: How Do Arabic Cultural and Ethical Perspectives Engage with New Neuro-technologies? A Scoping Review

    Amal MATAR

    Chapter 13: The Binary Illusion

    Karin GRASENICK

    Chapter 14: What's Next? The Chilean Neuroprotection Initiative, in Light of the Historical Dynamics of Human Rights

    Manuel GUERRERO

    Chapter 15: Interrogating the Culture of Human Exceptionalism: Animal Research and the Neuroethics of Animal Minds and Brains

    L Syd M JOHNSON

    Chapter 16: Cultural Neuroethics in Practice – Human Rights Law and Brain Death

    Jennifer A CHANDLER

    Chapter 17: Neuroscientific Research, Neurotechnologies and Minors: Ethical Aspects

    Laura PALAZZANI

     

    Conclusion

    Michele FARISCO

     

     

    Ettore Zecchino

     
    Vico dei miracoli

    Straordinario romanzo popolare su un sommo napoletano, ‘Vico dei miracoli. Vita oscura e tormentata del più grande pensatore italiano’ (editore Rizzoli), è un autentico atto d’amore di Marcello Veneziani per un filosofo a lui familiare in tutti i sensi. Introdotto al mondo fantastico del Vico dal padre Giovanni, il prolifico intellettuale pugliese ha infatti rinviato per lustri l’appuntamento ‘fatale’, per poi ‘risolverlo’ in pochi e intensissimi mesi di lavoro immersivo. Il risultato è un capolavoro assoluto di alta divulgazione storica, anzi vichianamente, scientifica, a parer di chi scrive tra i più interessanti degli ultimi tempi. Un’operazione culturale senza dubbio di grande efficacia, almeno a giudicare dal successo in libreria, sulla scia e nel solco della carsica e a tratti alluvionale rivalutazione di un pensatore da molto tempo ‘riscoperto’ in ambito accademico, ma forse ancora in una sorta di limbo al livello del grande pubblico istruito. Se per Veneziani, infatti, Giambattista Vico è stato indubbiamente il più grande pensatore italiano, molti programmi scolastici continuano ostinatamente a riservargli le briciole, in una provinciale sottovalutazione della genialità italica. Paradosso assoluto se consideriamo l’importanza fondamentale della sua concezione della storia, indubbiamente ispiratrice originaria proprio di quella Riforma Gentile, che, intellettualmente parlando, si dovrebbe appellare Croce-Gentile, base e fondamento del nostro sistema di istruzione, eminentemente liceale. E così, i giovani italiani, pur studiando ogni disciplina, anche non umanistica, da un punto di vista prevalentemente storico, ignorano spesso l’ispiratore più lontano, ma più ‘potente’ di questo indirizzo. Un destino, quello delle rivalutazioni postume, al quale il Nostro era abituato, come nelle pagine a volte commoventi di questo bellissimo libro chiaramente traspare. Il destino di un uomo straordinario, vissuto nel secolo d’oro di una città straordinaria, della quale è sicuramente emblema assoluto, ma dalla quale ha ostentatamente preso le distanze, ricambiato con gli interessi. Un intellettuale vissuto nel ventre di Napoli, in rapporto simbiotico con la sua millenaria cultura e con la sua brulicante umanità, che, in un secolo di esterofilie e francesismi ostentati, quale fu il Settecento napoletano, ha orientato i suoi studi e la sua speculazione filosofica sulla tradizione italica e mediterranea. Un pensatore che, in un’epoca di lumi atei, ha acceso i riflettori sulla nostra tradizione religiosa. Un italiano che, in una fase di esaltazione permanente delle scienze matematiche, dichiara lo studio scientifico della storia l’unico metodo per arrivare ad una conoscenza piena di qualcosa, attraverso gli strumenti della filosofia e della filologia. Una storia, quindi, non ‘semplice’ maestra di vita, ma scienza nuova, unica in grado di ammaestrare l’uomo sul senso della sua esistenza, portandolo a scoprire il vero in quanto coincidente con il fatto, ben oltre le astrazioni della matematica e-o i parziali, pur importanti progressi delle scienze fisiche. La vera conoscenza, secondo la celebre argomentazione vichiana è solo quella di chi ha creato. Sulla natura, quindi, unico depositario della verità piena è Dio, mentre la storia, guidata dalla Provvidenza, ma concretamente realizzata dagli uomini, può disvelarci le sue regole generali. Continuando su questa china tradiremmo, tuttavia, lo spirito autentico dell’opera di Veneziani, che, pur non tralasciando quasi niente delle più note teorie vichiane, ha il suo pregio principale nel riuscire sempre a collegare queste al suo autore, descritto nella sua umanità più plausibile eppure più splendidamente romanzata. Ma è anche quello di investigare efficacemente sul mistero del talento. Di più, sull’enigma di un talento originalissimo, quello di Giovambattista Vico, prodigio di sconfinata erudizione, ma miracolosamente isolato nel chiasso familiare e cittadino intorno a lui.

     

    Ettore Zecchino

    Are you going to al-Quds? Intrigo in Terra Santa

    Ha la statura, la corporatura e l’età dell’ultimo Ethan Hunt, conosce a fondo i lussi e i piaceri della vita come James Bond, ma ricorda molto da vicino i Sam Spade e i Philip Marlowe della letteratura e della cinematografia hard-boiled, vanto della Hollywood classica. Si chiama irriverentemente Issa (come, secondo un’etimologia controversa, Gesù in ambito musulmano), ed è arabo-israeliano, ma vive grazie alla penna di un italiano, anzi, un campano doc, come l’ambasciatore Cosimo Risi, storico amico di Biogem, sorprendente debuttante in un giallo internazionale.

     ‘Are you going to al-Quds? Intrigo in Terra Santa’ (Europa Edizioni), è forse solo il primo capitolo di una serie crime, destinata ad ampliare il già ricco panorama italiano in materia. O meglio, a completarlo, vista la tendenza dei gialli nostrani più letti a dare il meglio di sé nella talentuosa evocazione glocal di realtà fortemente caratterizzate, come la Sicilia di Montalbano, elegantemente pennellata da Andrea Camilleri, o la Napoli del Commissario Ricciardi, di Maurizio De Giovanni. O ancora, come la fusione tra i due mondi, compresenti nel sicilianissimo bastardo di Pizzofalcone, Giuseppe Lojacono, altra espressione del talento creativo di De Giovanni. E proprio a questi due autori, tra i tanti giallisti affermati di casa nostra, può guardare Cosimo Risi, come Camilleri debuttante in età avanzata, e come De Giovanni, suo buon amico, partenopeo per studi e passioni, sia pure salernitano di nascita.

    Le analogie con questi possibili modelli finiscono qui, vista la natura dichiaratamente cosmopolita ed internazionale del nostro racconto che, sin nel titolo, evidenzia un melting-pot non solo linguistico. Se infatti al-Quds (la Santa) è il nome arabo di Gerusalemme, l’are you going che la precede altro non è che la citazione monca di un brano di Pat Metheny, celebre chitarrista jazz statunitense, ascoltato, in cuffia, nelle prime pagine (potremmo anche dire scene) dal nostro investigatore. Tanto per fare capire subito il ritmo dell’opera, contrassegnata sempre da armonia e contrappunto. Non a caso l’irruzione occasionale di un’inevitabile musica classica assume le tonalità di un ‘jazzistico’ Johann Sebastian Bach, rappresentato dai sublimi ‘Concerti Brandeburghesi’. Un ritmo che è anche quello di molto cinema di genere, al quale il racconto quasi esplicitamente sembra rivolgersi.

    La trama, in verità, ci sembra di importanza secondaria, e, comunque non esente da una certa stereotipizzazione, ma è sovrastata dalla maestria nello scrivere in cui eccelle l’ambasciatore Risi, debitore, con originalità, di dichiarati modelli letterari, da Roger Peyrefitte a John Le Carrè, fino a Raymond Chandler, direttamente omaggiato, con la trasposizione, in apertura, di un suo fulminante testo.

    Eccoci, in ogni caso, catturati sin dalla prima pagina, a seguire le sorti di Issa, rapito sulla litoranea da Tel Aviv a Jaffa, mentre è distratto dal brano di Metheny che ascolta in cuffia, e portato al cospetto di un grande Vecchio, identico a molti altri incontrati in svariati film e telefilm, con tanto di rughe e aria di mistero. Questi è interessato a un’indagine che, finalmente in proprio, dopo una vita al servizio dello Stato, Issa sta conducendo per conto di un’avvenente neo-vedova. La storia è incentrata sulla morte del marito, probabilmente collegata ai celeberrimi Rotoli del Mar Morto. Qui la vicenda sembra prendere una pericolosa piega alla Dan Brown, ma l’autore, puntando sull’introspezione chandleriana del protagonista e sulla sua personale, straordinaria conoscenza del ‘bel mondo’, riesce abilmente a sottrarsi alla noia del già letto e alla pretenziosità di un genere tanto in voga. L’elemento spirituale è volontariamente ignorato, quando non direttamente respinto dal nostro detective che, pur immerso in ambienti che lo evocano espressamente (conventi, moschee, sinagoghe, il solito Vaticano), si corazza dietro la disillusione dell’uomo vissuto. O, per meglio dire, frustrato. Dagli insopprimibili sensi di colpa per un amore finito tragicamente, come dal senso di incompiutezza e di fallimento esistenziale che sembrano zavorrarlo ovunque. Per nostra fortuna, non al punto da evitargli i piaceri della vita, descritti da Risi con l’elegante maestria di chi li usa, ma mai ne abusa, pur con qualche audace concessione a un erotismo in qualche caso spicciolo, in altri, conturbante. Un risvolto classicamente da ‘ghiaccio bollente’ hitchcockiano.

    Le donne, spesso belle, che incontra il protagonista, sono ben lontane dal modello Bond Girl, ma altrettanto da qualsiasi afflato romantico. Che siano la cliente, la giovane bibliotecaria, la commilitona, la vicina di casa, la suora integralista, la diplomatica, la locandiera vedova, come la fascinosa spogliarellista, sono tutte emancipate e disilluse come lui, quasi a giustificare la sua misoginia di fondo, pur non accentuata come in alcuni dei suoi dichiarati modelli. Non può quindi stupire la sensibilità esibita da Issa, nonostante il perenne esercizio fisico e cosmetico ‘anti-aging’, verso i piaceri offerti dalla buona tavola. Per la quale osa non rispondere a una telefonata del dispotico Vecchio, non volendo essere disturbato in un momento cruciale della giornata. E così, quasi ogni snodo principale della vicenda ha a che vedere con un pasto. Dal semplice caffè con un gianduiotto, letteralmente alle origini della sua vita, a un pranzo in un ristorante stellato, situato all’interno di un suggestivo convento nelle Ardenne, con un morto per meditazione post-dessert.

    Il racconto, dicevamo, è cosmopolita: si svolge tra Israele, Francia, Belgio, Italia, Giordania. Si parte da Tel Aviv e Jaffa, per poi trasferirsi a Gerusalemme (la al-Quds del titolo), e da qui partire, anche con l’aiuto di flash-back, in direzione Torino e Parigi, salire fino alle Ardenne e a Bruxelles, arrivare a uno snodo cruciale nella Roma non solo papalina, per poi ritrovarci finalmente nella Giordania dei Rotoli di Qumran. La chiusura è, tuttavia, riservata alla lussuriosa Parigi di Pigalle, nell’enigma di un rapporto che può fare pensare a un’evoluzione amorosa.

    Ognuno dei luoghi raggiunti da Issa diventa l’occasione per mirabili descrizioni di ambienti naturali e artificiali, grazie alle quali l’autore esibisce un talento descrittivo straordinario. Che si tratti di un’opera d’arte o di un panorama, di arredi e oggetti di design, di grandi vini (spesso tra gli emergenti israeliani delle Alture del Golan o tra i classici libanesi) o di cibi di ogni sorta, di conventi o dei suoi abitanti, di ambasciate (chissà se almeno in parte abitate dall’autore), Risi riesce a farci sentire al cinema, tanto vividi sono i colori evocati nelle sue descrizioni e tanto movimentate le scene.

    La fine della vicenda (di un giallo si può fare solo un minimo accenno alla trama) può lasciare un po' di ‘chandleriano’ amaro in bocca, ma, come per alcuni buoni vini, è per predisporci a un altro sorso.

     

    Ettore Zecchino

    Alle origini dell'etica ambientale

    Pregevole saggio della professoressa Luisella Battaglia, ‘Alle origini dell’etica ambientale’. Uomo, natura, animali in Voltaire, Michelet, Thoreau, Gandhi’ (edizioni Dedalo), ad oltre 20 anni dalla sua pubblicazione, ha acquisito lo status del ‘classico’. L’opera costituisce infatti un ottimo punto di partenza per chiunque volesse addentrarsi nel settore ancora ‘giovane’ dell’etica ambientale, dove la professoressa Battaglia si muove con l’autorevolezza di una direttrice d’orchestra e con la passionalità di un primo violino. Capace di coordinare memorabili acuti di giganti del passato con profonde considerazioni dei sistematizzatori del presente, guidati, entrambi, dalla sicurezza di una invisibile bacchetta fuori scena. L’’esibizione’, introdotta da un prezioso contributo storico-giuridico-filosofico del professore Francesco De Sanctis, parte con l’enunciazione dei temi portanti dell’intero saggio, visti nel loro problematizzato punto di arrivo. E così, il macrotema dell’etica ambientale viene immediatamente contestualizzato nell’ambito dell’emersione, ormai completa, di una generalizzata coscienza ecologica, fattasi largo tra non pochi rigurgiti antropocentrici, motivati da una presunta minaccia all’essenza stessa dell’umano. All’opposto, tale coscienza ecologica è chiamata a resistere agli equivoci della cosiddetta ecologia profonda, in grado, effettivamente, di colpire al cuore qualsiasi concettualizzazione dell’originalità umana. Spinte e controspinte studiate con preoccupazione dall’autrice che, pur schermandosi dietro rassicuranti sentenze di giganti della contemporaneità, intende arruolare illustri testimoni del passato in una personale guerra alla cattiva coscienza di molti. L’ecologia è certamente, secondo una celebre definizione di Edgar Morin, una scienza nuova, che permette una comunicazione interdisciplinare e il riconoscimento di una stretta interrelazione tra l’oggetto e l’ambiente in cui si trova. Ma, ciò posto, come approcciare ad essa con il carico del plurisecolare umanesimo antropologico depositato in tutti noi? Ecco, quindi, materializzarsi la sfida di un nuovo umanesimo ‘ecologico’, intravisto o magistralmente praticato dai quattro eroi del sottotitolo.

    A questo punto siamo al cuore dell’opera e il piacere della lettura si impenna. Da una scorrevole e puntuale disamina del dibattito odierno intorno alla bioetica, la professoressa Battaglia ci ‘trasporta’, infatti, nel giardino fiorito degli argomentati punti di vista di Voltaire, Michelet, Thoreau e Gandhi. Con una regia da Oscar, l’autrice alterna sue introduzioni e/o spiegazioni a brani tratti sapientemente da opere scelte dei quattro autori.
     Da Voltaire, uomo simbolo del Settecento, Luisella Battaglia estrapola soprattutto il concetto della tolleranza, elargito ora con ampio ricorso all’ironia, ora con una prosa polemica e tagliente all’indirizzo di grandi del passato. Bersaglio principale è il dogma cartesiano dell’animale automa, smontato dalla viva voce delle stesse bestie (un cappone e una pollastrella) che ne ‘La cena del conte di Boulainvilliers’, nel mezzo di una mansueta attesa della morte per mano umana, ridicolizzano le contraddizioni di questa ed altre simili visioni del mondo animale, consentendosi anche l’umiliante concessione di un non richiesto perdono. A significare, quindi, la possibilità di un nuovo umanesimo, urgentemente richiesto dalla comune precarietà creaturale in un universo, reso più familiare dalla rivoluzione scientifica, ma pur sempre ostile e patrigno. Una visione pessimistica ma struggentemente poetica, declinata da Voltaire in molte altre sedi e con stili sempre diversi, nella direzione di una compiuta etica del riconoscimento, alla base di qualunque riferimento futuro ai diritti degli animali.
    Esseri, questi ultimi, considerati ‘fratelli’, in pieno Ottocento, da un sorprendente Jules Michelet, che, da sommo storico della Francia e della sua Rivoluzione, vira, nella seconda parte della sua carriera professionale, verso studi naturalistici. Il concetto di popolo, monumentale presenza nei suoi tomi storici, si estende, quindi, in un favoloso ampliamento degli ideali rivoluzionari, al mondo animale, nella costante tensione verso l’emancipazione reale di tutte le creature. Un’etica della responsabilità imprescindibile per l’uomo, chiamato a restituire agli animali quanto da loro ricevuto, con la creazione di una paritaria società dei viventi.
    Di ecologia in senso proprio, secondo Luisella Battaglia, possiamo iniziare a parlare solo con Henry David Thoreau, contemporaneo di Michelet, ma incline a una riflessione più ampia sulla natura dei viventi, allargata alla sua prevalente parte inanimata. Nei boschi in riva al lago Walden, presso Concord, in Massachussetts, Thoreau si ritirerà volontariamente, desideroso di vivere con saggezza. E alla natura tutta rivolgerà i suoi sforzi, nella speranza di comprenderne l’arcano linguaggio, per instaurare un rapporto intimo di ‘simpatia’. L’opposto del naufrago Robinson Crusoe, impegnato ad affermare, sull’isola deserta, i suoi valori borghesi. E lontanissimo dall’ideologia puritana della frontiera, fondata sul dominio della natura selvaggia. Quella ‘wilderness’ che Thoreau, al contrario, invoca come un salvifico spirito guida verso un’esistenza realmente degna di essere vissuta. Una vita improntata a un’ecologia della libertà’, tesa a valorizzare l’individuo e a connetterlo con la natura, preservandola dalla distruzione come anche da una sua antropomorfizzazione. Un obiettivo, quindi, di connessione e mai di fusione nella natura, al riparo da strumentalizzazioni economiche (Thoreau condannava lo sfruttamento economico delle foreste, anche nella forma ‘illuminata’ del sistema turistico dei parchi naturali, che pure, involontariamente, ha contribuito a far nascere)  e o filosofiche, e, men che meno, da virate new age.
    Congedatasi idealmente dai tre illuminati pensatori occidentali, l’autrice si rivolge all’Oriente per una nuova etica ecologica, trovandola nella Grande Anima di Gandhi, qui presentato come un pensatore libero da rigidi dogmatismi e capace di parlare anche ad altri mondi. Un uomo recuperato a una piena e consapevole adesione all’induismo da non irrilevanti influssi culturali occidentali. Un ‘Mahatma’ che si fa autorevole propugnatore di un’etica della responsabilità alla base di scelte in parte ‘spiazzanti’. Come le deroghe all’ahimsa (non violenza) per i casi di inevitabile difesa del più debole o, addirittura, per l’eutanasia, da praticare, a vantaggio di qualsiasi creatura, in presenza di una irrisolvibile sofferenza senza sbocchi. E come un certo ‘pragmatismo’ nella sacralizzazione della madre vacca, fonte primaria di sostentamento del villaggio indiano, provocatoriamente anteposta alla madre umana. Scelte cui l’uomo è chiamato, non dovendo mai rinunciare all’esercizio della responsabilità, declinata in rapporto all’intero creato. Di qui lo sbocco nell’etica della cura, che - auspica infine l’autrice - superando il paradigma contrattualista, possa spronare l’Occidente e il mondo intero a una non più rinviabile azione di tutela dell’ambiente, nell’accezione più ampia possibile.

     

    Ettore Zecchino

    Cronache della pandemia

    Un lungo reportage sulla pandemia da leggere come un audio-libro, tanto incalzante nel ritmo, quanto preciso e scorrevole nei contenuti. E’ questo e molto altro ‘Cronache della pandemia. Storia e storie degli anni che hanno cambiato la nostra vita’, del giornalista RAI Daniele Morgera (editore La Bussola). Una pubblicazione utilissima al lettore ‘generalista’, per la straordinaria valenza divulgativa e, non raramente, anche informativa, grazie ai numerosi inediti estrapolabili dalla lunga pagina ‘cronachistica’, e, soprattutto, dalle otto interviste esclusive che chiudono il volume. Un lavoro, tuttavia, sicuramente consigliabile anche al lettore specializzato o all’addetto ai lavori, per la straordinaria capacità di sintesi espressa, capace di scolpire con sicurezza e affidabilità tutti i punti fermi raggiunti dalla scienza in merito alla natura e alle caratteristiche del famigerato COVID-19. E, più ancora, grazie all’abilità dell’autore nel far dialogare tra loro uomini e donne di scienza, alla ricerca di un minimo comune denominatore possibile tra ‘cervelli’ della stessa o di diverse discipline. Un approccio nitidamente biculturale, pur focalizzato sulla ricerca virologica.
    Nel libro è rispecchiato in pieno il consolidato talento cronachistico dell’autore, capace di spaziare in tutte le dimensioni del giornalismo e in grado, quindi, di trattare il tema pandemico da più punti di vista. Le varie tappe del viaggio a cui ci chiamano le circa 220 pagine di questa galoppata nell’era del COVID portano quindi in tutto il mondo, in una prospettiva autenticamente globale, appannaggio di un esperto inviato RAI, ma, a sorpresa, scavano anche nei nostri ricordi personali. Metaforicamente, per chi facilmente si riconosce in almeno qualcuno dei tanti brandelli di vita vissuta in un tempo che ha visto il mondo unirsi nel dolore e somigliarsi nella sofferenza. Ma anche direttamente, nel ricordo ancora vivido di quanti hanno avuto un coinvolgimento personale nelle vicende narrate.
    E’ proprio il caso della comunità di Biogem e del contributo che l’Istituto irpino ha da subito offerto alla comune battaglia contro il virus. Un impegno descritto con sintetica esattezza nei report sui numeri costantemente crescenti delle attività di refertazione giornaliera di tamponi rinofaringei, alla ricerca del COVID-19. Un impegno, al tempo stesso, nobilitato dalla volontà di supporto al territorio manifestata da Biogem, colta in pieno dall’autore e provata dal notevole sforzo di momentanea riconversione ‘scientifica’ del centro di ricerca.
    L’Irpinia, e più precisamente la ‘sua’ Ariano, occupa un posto rilevante in questo reportage. Qui Morgera, pur cittadino del mondo, si sente a casa, e, per un attimo, sveste i panni del cronista totalmente asettico, consentendosi valutazioni e opinioni personali, ma ancorando gli uni e le altre a dati di cronaca stringenti. Egli parte da un anelito alla verità che lo porta a ribaltare versioni frettolosamente spacciate per ‘definitive’, nonostante il portato di dolore e incomprensione sottostanti. In particolare, Morgera non esita a censurare implacabilmente il clima di caccia alle streghe troppo spesso respirato a queste latitudini. Un’atmosfera, del resto, percepita anche in contesti molto meno provinciali e, almeno sulla carta, più qualificati. Come gli studi televisivi, dove, in certi momenti e in determinati luoghi, alcuni talk show erano diventati una giungla senza regole, alimentando una cosiddetta infodemia, fortemente stigmatizzata dall’autore.

    Lungi dal rassegnarsi a queste, pur sentite considerazioni, Morgera prova ad alimentare la speranza e l’autostima di una comunità nazionale ferita, ma ancora vitale e dinamica. Lo sorreggono, ancora una volta, i tanti chilometri percorsi realmente o metaforicamente nella sua attività lavorativa, sempre alla ricerca di storie. Per fortuna, spesso edificanti. Dall’abnegazione del personale medico, alla generosità dei singoli, alla rapidità nella risposta al virus di una comunità scientifica capace di decuplicare gli sforzi e di realizzare vaccini efficaci in tempi record (illuminante, in quest’ottica, il colloquio avuto dall’autore con il siciliano Andrea Carfì, Responsabile della divisione Malattie Infettive di Moderna). L’ottimismo di fondo che l’autore vuole e riesce ad imprimere al lettore, idealmente sigillato nel capitolo finale del libro in un’intervista esclusiva al Premio Nobel per la Fisica, Giorgio Parisi, non lo allontana, tuttavia, di un millimetro dalla vocazione all’approfondimento a 360%, tipica dei giornalisti di razza. Fioccano infatti gli interrogativi, talvolta anche conditi di stupore, in merito a tante vicende ancora avvolte in qualche ombra. Dal pasticcio sui continui ritiri del vaccino Astrazeneca, al grave ritardo italiano nel campo delle cure contro il virus. Dall’utilizzo a scartamento ridotto di antivirali e monoclonali, pur giudicati fondamentali per alcune categorie di pazienti, alle inefficienze nell’approvvigionamento di mascherine e di altri presidi sanitari. Dall’assoluta carenza di investimenti nei sistemi di areazione per edifici pubblici e per le scuole (in questo secondo caso è descritto un esempio particolarmente virtuoso nella meridionale Bari), ai mancati investimenti per l’’adeguamento’ dei mezzi pubblici, fino ad interventi piuttosto naif come i banchi a rotelle destinati agli alunni nei plessi scolastici e largamente inutilizzati. Ancora, e, soprattutto, l’incomprensibile rinuncia a sostenere l’avventura di un vaccino tutto italiano, pur intrapresa con slancio da due player consolidati come ReiThera e Takis.
    Pagine di cronaca talvolta inedite, spesso originali, sempre accattivanti, che anticipano la seconda parte del libro, dedicata all’approfondimento scientifico, grazie a ben otto interviste esclusive ad altrettanti protagonisti della comunità scientifica, tutti in prima linea nella battaglia contro il COVID-19. Il già citato Giorgio Parisi è qui in buona compagnia e chiude una galleria di personaggi che si apre con l’ex mister EMA (European Medicines Agency), Guido Rasi, sincero, tra l’altro, nel mettere in luce i notevoli deficit comunicativi dell’agenzia continentale del farmaco. Un’onestà intellettuale che sembra emergere da tutti i contributi sollecitati da Morgera, come spesso si rinviene nelle migliori interviste. Da quella con Walter Ricciardi, superconsulente del Ministro per la Salute, Roberto Speranza, che non esita ad attribuire alle indecisioni della politica (ma non del ‘suo’ ministro), la responsabilità del forte impatto sull’Italia della seconda e terza ondata virale. In altro senso, colpisce il chiaro sospetto anti-cinese del Presidente dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e virologo di fama, Giorgio Palù, che, forse in leggera controtendenza rispetto al grosso della comunità scientifica, afferma di non potere escludere, allo stato attuale delle conoscenze, che l’ormai famigerato Istituto di Virologia di Wuhan possa essere il luogo di origine della pandemia.
    Si vola alto anche con gli interventi di due grandi protagonisti della lotta al COVID-19, l’epidemiologo Massimo Ciccozzi e il ‘sommo sacerdote’ della Prevenzione Sanitaria, Giovanni Rezza, pronti ad offrire all’autore preziosi input in materia scientifica e politico-sanitaria. Con il professore e clinico Francesco Cognetti, chiamato in causa da Morgera per il suo ruolo decisivo nel consentire l’allargamento ai pazienti oncologici del diritto alla priorità negli itinerari vaccinali, si apre infine, la pagina del futuro riservato ai preparati ad  mRNA messaggero, massicciamente usati contro il COVID-19. Un capitolo abbozzato da Cognetti e poi sviluppato dal Direttore Scientifico dell’IRCCS ‘Istituto Nazionale Tumori Regina Elena’ di Roma, Gennaro Ciliberto. A lui dobbiamo, in particolare, la capacità di farci intravedere un vero cambio di passo nella difficile lotta al cancro, grazie ai vaccini ad mRNA e ai recenti studi sulla possibilità di trasportarli in maniera mirata all’interno dell’organismo umano.
    Alti e bassi di un sistema sanitario popolato da eccellenze, ma troppo spesso non supportato dalla sensibilità di una politica che presto dimentica e che, sembra ammonire Morgera, passata l’emergenza, appare incapace di apprenderne le lezioni più importanti. Una sanità, quindi, che, lungi dall’essere stabilizzata in un nuovo percorso virtuoso, presenta l’alto rischio di ricadere in una malattia cronica, alimentata da scarsi o inappropriati investimenti e da una soffocante e zavorrante burocrazia. Deficit e inadeguatezze che, forse, spiegano bene alcuni dati, altrimenti incomprensibili nella loro durezza (come il numero dei morti da COVID-19 in Italia, percentualmente superiore a quello di altre realtà a noi omogenee).
    Inefficienze e negatività alle quali Daniele Morgera contrappone l’arma di una conoscenza sempre più diffusa, capace di generare consapevolezza collettiva e di farsi pungolo permanente per chi è chiamato a decidere. In fondo, l’essenza del migliore giornalismo, meritevole di sostegno e di lettori, anche quando si sdoppia in corso d’opera e si congeda come un magistrale saggio di divulgazione scientifica.

     

    Ettore Zecchino

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