Invito alla lettura

    Il paradigma perduto

    Il paradigma perduto

    Opera oltre le ‘Due Culture’, con la sua tensione permanente verso un’ideale unità dei saperi, ‘Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana’ (editore Mimesis) è uno dei saggi più rappresentativi di Edgar Morin, ‘‘l’uomo-secolo’’, secondo la suggestiva definizione coniata per lui dal presidente francese Emanuel Macron, in occasione dei festeggiamenti per il traguardo dei 100 anni, raggiunto lo scorso 8 luglio. E, in fondo, con riferimento al ‘900, si può senza dubbio prendere a prestito questa definizione anche per ‘Il paradigma perduto’, mirabile sintesi delle più avanzate speculazioni intellettuali in varie branche della cultura occidentale, dalle ‘consolidate’ storia, filosofia, biologia, archeologia, politica, alle ‘moderne’ paleontologia, antropologia, psicoanalisi, semeiotica, cibernetica, informatica, ecologia. Uno sforzo davvero notevole, incurante di ogni ‘gelosia’ o esclusivismo professionale di tanti accademici di peso, e orientato alla emersione di sempre nuove domande, più che alla rassicurante certezza di precise risposte, intorno all’essenza della natura umana. Un libro da studiare, più che da leggere, o, almeno, da rileggere una seconda volta con attenzione, per meglio assimilare i tecnicismi, i sincretismi, i neologismi, disseminati lungo tutto il percorso, da un timoniere straordinariamente inventivo e colto, ma forse, non sempre alieno, da un certo auto-compiacimento intellettualistico.

    Il paradigma perduto del titolo per molti lettori può, in fondo, rimanere oscuro, vista la programmatica apertura al dubbio di molti passi cruciali del libro e data la complessità di concetti, che, sempre ‘afferrabili’, non necessariamente sono con chiarezza interiorizzabili. Ad ogni modo, appare evidente, in quest’opera, la valenza di manifesto ‘della complessità’, in un titanico progetto interdisciplinare di filosofia e antropologia, dove viene abbattuta la riduzione dell’homo a faber e sapiens, a vantaggio di una definizione fortemente dicotomica di homo ‘sapiens-demens’. Una versione di uomo nuova, dove la sragione diventa importante come la ragione, il caos come l’ordine, e dove dall’errore scaturiscono formidabili progressi. Un film, quello scritto da Morin (non a caso esperto di vero cinema e occasionale regista), con scene preistoriche affascinantissime, sulle tracce di antropoidi e foreste, savane e caccia, sepolture e arte, in una paleo e proto storia, nel lunghissimo percorso dell’’ominizzazione’. L’uomo, ci fa capire l’autore, non è definibile da schemi di ristretto biologismo, nè da concezioni letterariamente ‘sopra-naturali’ di tanto antropologismo. Tanto meno da visioni che ignorano la vita e la storia, come quelle scaturenti da astratti sociologismi. L’uomo di Morin, in attesa di una sempre invocata, ma un po’ enigmatica, ‘scienza nuova’, si configura, al tempo stesso, come specie, società ed individuo, secondo una versione integralmente ecologista della nostra condizione. Ecco, quindi, spiegata l’insistenza sull’interdipendenza tra sviluppo del cervello umano e nascita della cultura. Senza un ambiente culturale preesistente non si può infatti spiegare fino in fondo lo sviluppo cerebrale del sapiens, così come lo sviluppo sociale può accompagnare un ulteriore avanzamento culturale. Alla natura, nella sua essenza biologica, tocca il prima e il dopo. Per Morin, infatti, ‘’l’uomo è un essere culturale per natura, perché è un essere naturale per cultura’’.

     

    Ettore Zecchino


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