Invito alla lettura

    La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni

    Estratto da un celebre discorso pronunciato all'Athénée  Royal di Parigi nel febbraio del 1819, il saggio ‘La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni’ di Benjamin Constant (editore Einaudi) è un libretto di poche, ma densissime pagine, capace di sistematizzare temi dibattuti per secoli, e, al tempo stesso, di aprire una nuova pagina della storia, di quella del liberalismo in particolare. In questo scritto Constant sostiene che la libertà presso i popoli antichi si misurava, essenzialmente, con riguardo al livello di partecipazione alla vita pubblica. Si trattava, quindi, ad ogni evidenza, di una libertà riferita al cittadino, soprattutto nell’accezione greca di abitante della ‘polis’, e non all’individuo. Una libertà, quindi, intesa esclusivamente nella sua accezione in seguito definita, con qualche approssimazione, ‘positiva’, come capacità di gestione collettiva della cosa pubblica, a vantaggio della quale andavano sacrificati eventuali impulsi a un suo trasferimento nella sfera ‘privata’. All’opposto, la libertà dei moderni è, (sempre secondo una definizione storica) ‘negativa’, in quanto riferita alla garanzia per l’uomo (all’epoca di Constant, da intendere come persona di genere maschile), di non essere ostacolato dall’autorità pubblica in tutti gli aspetti della propria vita non nocivi alla comunità. Una differenza enorme, eppure, secondo Constant, non compresa dai giacobini, che pretendevano di fare la rivoluzione in nome di una libertà ormai anacronistica. La società moderna è infatti estremamente più articolata ed estesa, a partire dall’aspetto puramente dimensionale ed anagrafico. Non si può, quindi, deliberare collettivamente in piazza, come invece avveniva nell’agorà greca. I cittadini moderni, inoltre, non dispongono di schiavi, ai quali delegare le incombenze quotidiane, per dedicarsi in via quasi esclusiva alla vita pubblica. La società moderna è, tra l’altro, fondata sul commercio, visto come un’evoluzione della guerra, alla base, invece, della società antica. E il commercio, contrariamente alla guerra, non prevede interruzioni. L’uomo moderno, quindi, non può mai sottrarsi alle sue occupazioni private, dalle quali attinge le proprie ricchezze e i propri agi, di cui vuole poter disporre liberamente. Naturalmente, si affretta a precisare Constant, neppure l’uomo moderno si può consentire il lusso del disinteresse rispetto alla cosa pubblica. Di qui, la fortuna dell’istituto della rappresentanza, capace di garantire a tutti una partecipazione, sia pur indiretta, alle attività di guida e di governo di un Paese, per altro, nella visione di Constant, riferita pure alle amministrazioni territoriali. D’altra parte, il ricorso eccessivo a quest’istituto può pregiudicare la natura veramente libera di un popolo, esponendolo, anche in assenza di vere e proprie derive tiranniche, a degenerazioni oligarchiche o a forme più o meno velate di dittatura, della maggioranza, o, addirittura, di singole minoranze. Un pericolo assoluto, ben messo a fuoco anni dopo da Alexis de Tocqueville, capace di vanificare qualsiasi aspirazione alla libertà individuale, tanto cara ai moderni. Ecco, quindi, che, con buona pace di tanti autorevoli interpreti di Constant, le due libertà nel pensiero dell’autore sono, in realtà fortemente interconnesse. Per Constant, in particolare, non si può parlare di libertà in termini assoluti quando una società umana non riesce a mantenere il giusto equilibrio tra queste due sue declinazioni.

    Il carattere dirompente del testo e l’acume di alcune sue tesi hanno, come spesso capita in questi casi, consentito interpretazioni differenti, a volte del tutto contrastanti, di quest’opera, ora letta in chiave marxista come una manifestazione di conservatorismo borghese, ora come una delle più riuscite celebrazioni di una liberal-democrazia da compiersi. In realtà, Benjamin Constant, liberale convinto ed estimatore di Adam Smith, ma non strettamente liberista, sembra, al riguardo, mantenersi su un piano problematico. Da un lato, infatti, pare presumere la democrazia come sfondo ideale per un pieno sviluppo storico delle idee liberali, dall’altro, con la netta preferenza accordata alla libertà individuale, sembra ammonire che liberalismo e democrazia siano costrette a coabitare, ma mantenendo sempre proprie evidenti specificità e differenti finalità ultime.

    Come tutte le opere di questo spessore, ‘La libertà degli antichi’ genera continui dibattiti, anche a distanza di due secoli dalla sua pubblicazione, legittimando anche occasionali e non infondati ridimensionamenti. Come quelli operati da chi rimprovera l’autore per una disamina del mondo antico troppo parziale ed imprecisa, o forse, troppo modellata sulla Atene di Pericle o, alternativamente, sulla Sparta degli efori. Come non rimanere perplessi, infatti, rispetto a una ‘standardizzazione’ tra polis greca e repubblica romana? Come negare la presenza, anche nel mondo antico, almeno in quello greco-romano, più direttamente preso in esame dall’autore, di libertà individuali, che non si limitano certo allo sviluppo commerciale di Atene, dall’autore elevata a realtà (solo per alcuni aspetti) comparabile con quella moderna? E come non citare almeno Hegel e le sue considerazioni sull’invenzione romana del diritto privato?

    In realtà, Constant, a leggere bene il suo denso saggio, al netto di semplificazioni e ‘compressioni’ dovute alla necessaria sintesi oratoria, sembra suggerire una sostanziale coincidenza degli aneliti e delle esigenze di libertà degli antichi e dei moderni, incamminati su percorsi diversi ‘solo’ per la notevole diversità del quadro storico sottostante. Insomma, anche gli antichi volevano poter raggiungere indisturbati il massimo del godimento possibile, ma, in una società basata sulla schiavitù, massimo godimento era, probabilmente, il poter essere liberi, nell’accezione basica del termine, e rimanere in questo stato quanto più a lungo possibile. Condizioni garantite solo dal pieno sviluppo della propria partecipazione pubblica, in grado di motivare il proprio impegno diretto contro il rischio di schiavitù esterne (il cittadino greco combatte per se le guerre e per questo riesce a esprimere frequenti ‘eroismi’) ed interne, come antidoto a derive autoritarie e oligarchiche del potere.

    Anche quello della libertà, sembra volerci dire Constant, è un cammino evolutivo, ma la sua intelligenza, definita elogiativamente illuministica, non poteva prevedere la beffa di una storia che avrebbe sconfessato alcuni dei presupposti di questo libro. Il commercio, ad esempio, sarà pure un’evoluzione della guerra, ma di certo non è riuscito a impedire le insuperate tragedie belliche novecentesche, né i feroci totalitarismi fioriti come loro maggiori cause ed effetti. In fondo, ‘romanticamente’, il passato ha in sé elementi del presente e anticipazioni del futuro.
    Dunque, Benjamin Constant, campione del Romanticismo in letteratura, nell'analisi storica era un illuminista o un romantico?

     

    Ettore Zecchino

     

     
    Saggio sulla libertà

    Capolavoro indiscusso della saggistica filosofico-politica ottocentesca, il ‘Saggio sulla libertà’ (On Liberty) di John Stuart Mill (editore Il Saggiatore) si offre a noi contemporanei come un pensiero militante più ancora che come un classico, vista l’attualità che riesce a esprimere in molti suoi passaggi chiave, soprattutto i più problematici ed aperti. Oggetto dell’opera, come si affretta nei primi righi a precisare l’autore stesso, è la libertà civile o sociale, studiata, soprattutto, in rapporto alle legittime limitazioni imposte contro di essa dallo Stato. Interventi, questi, accettati ed anzi incoraggiati, essenzialmente solo se diretti alla difesa della comunità stessa. Un principio, questo sì, divenuto un classico, e, a onore del vero, non esclusivo di Mill, ma da questi declinato sicuramente in maniera esemplare.

    Centrale nel ‘Saggio’ è la libertà di pensiero e discussione, cui è dedicato un intero capitolo, e che è esplicitamente considerata un bene supremo, meritevole di protezione assoluta. Senza la possibilità di pensare liberamente, infatti, l’umanità non potrebbe fare alcun passo avanti nella direzione del progresso e di una pur parziale e provvisoria verità, ai quali per natura, dovrebbe tendere. A tutti, per corollario,  va sempre concesso il pieno diritto di esprimere le proprie convinzioni, in particolare se minoritarie e originali. E il confronto che ne nasce diventa la sicura premessa del successo di una comunità. La verità, infatti, va messa in discussione e-o difesa continuamente, fugando così il rischio di una sua riduzione a dogma, accettato passivamente, e, gradualmente, poco o mal compreso. Opportuno è inoltre considerare sempre la sua parzialità ed emendabilità. Anche una sola opinione dissenziente in tutto il mondo andrebbe quindi, consentita e coltivata, come potenziale ragione di sovvertimento, o come rafforzamento della verità preesistente. Una vera comprensione dei fenomeni, d’altra parte, per Mill può arrivare solo da un procedimento per negazione ‘socratico’, o, al limite ‘medioevale scolastico’. E non è un caso se proprio il sommo ateniese sia indicato come martire per antonomasia della libertà. Una condizione, quella di Socrate, inflitta a tanti altri uomini, anche da parte di grandissimi ingegni, spesso animati da indubbia carica etica (e qui l’empatia mostrata dall’autore per il grande Marco Aurelio e le sue ‘penose’ persecuzioni contro i cristiani è totale). Proprio per questo, le eccezioni alla regola devono essere limitatissime, non mettendo quasi mai in campo la ‘scivolosa’ morale.

    Di pari passo con la tutela della libertà va quindi considerata essenziale la valorizzazione dell’individualità, vista come motore del bene comune, grazie al propellente dell’originalità, alla base di ogni ‘creazione’ umana e terreno di coltura della genialità. Uno Stato lungimirante deve guardarsi bene dall’accrescere la sua burocrazia (anche quando qualitativamente eccellente), puntando, invece, a stimolare sempre l’autonomia e l’energia vitale dei singoli, per non accorgersi troppo tardi che ‘’con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi’’.

    Più o meno con tali parole si conclude questo densissimo saggio, fonte di stimoli notevolissimi, nelle direzioni più disparate. Non è un caso se, sempre con una qualche plausibilità, sia stato considerato, rispettivamente, una delle massime espressioni del sistema liberale classico, oppure l’atto di nascita del liberal-socialismo, vista una qualche apertura, da parte di Mill, al concetto di ridistribuzione dei beni prodotti, e vista la piena legittimazione di un certo tipo di tassazione come sano strumento di politica economica. E ancora, l’ingresso del liberalismo in nuovi mondi. Tra questi, spicca la battaglia per il suffragio universale assoluto ( pur in grande anticipo sui tempi, Mill immaginava, tuttavia, una sorta di voto ponderato, in base alla ‘cultura’ dell’elettore). Nemmeno in questo caso, tuttavia, l’individualità può essere ridimensionata, e, sulla scia dell’ammirato Tocqueville, la dittatura della maggioranza viene stigmatizzata come non meno temibile di tanti dispotismi (tesi attualissima e praticamente alla base di quasi tutti gli studi contemporanei sul fenomeno del populismo). Rilevante è poi la perorazione, sviluppata nella sua pienezza in un celebre saggio successivo, della completa parità tra i sessi. L’influenza culturale della compagna Harriet Taylor su molta parte della sua produzione culturale è da Mill stesso sempre abbondantemente riconosciuta, e costituisce, nello specifico, l’incipit di quest’opera. D’altra parte, l’intensità di questo rapporto tra i due potrebbe regalare l’Oscar a qualsiasi regista ispirato.

    Anche in Italia il ‘Saggio sulla libertà’ ha goduto e gode di grande considerazione, tanto da aver favorito riflessioni e riletture negli ambiti più disparati, da Gobetti a Rosselli, passando per Sturzo, fino al più ‘ovvio’ Einaudi, ma, significativamente, è stato molto ridimensionato dalla cultura idealistico-crociana. In tempi di pandemia e di rinascenti terrorismi, con i problemi di privazione di libertà che tali fenomeni possono determinare, ci sembra quindi ragionevole ritornare al Saggio milliano, come a un ideale stimolo culturale, nella speranza di illuminare la nostra strada. Dopo tutto, una città non marginalmente presente nella gestazione dell’opera sembra sia stata l’italianissima e problematicissima Napoli.

     

    Ettore Zecchino

    Il paradigma perduto

    Opera oltre le ‘Due Culture’, con la sua tensione permanente verso un’ideale unità dei saperi, ‘Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana’ (editore Mimesis) è uno dei saggi più rappresentativi di Edgar Morin, ‘‘l’uomo-secolo’’, secondo la suggestiva definizione coniata per lui dal presidente francese Emanuel Macron, in occasione dei festeggiamenti per il traguardo dei 100 anni, raggiunto lo scorso 8 luglio. E, in fondo, con riferimento al ‘900, si può senza dubbio prendere a prestito questa definizione anche per ‘Il paradigma perduto’, mirabile sintesi delle più avanzate speculazioni intellettuali in varie branche della cultura occidentale, dalle ‘consolidate’ storia, filosofia, biologia, archeologia, politica, alle ‘moderne’ paleontologia, antropologia, psicoanalisi, semeiotica, cibernetica, informatica, ecologia. Uno sforzo davvero notevole, incurante di ogni ‘gelosia’ o esclusivismo professionale di tanti accademici di peso, e orientato alla emersione di sempre nuove domande, più che alla rassicurante certezza di precise risposte, intorno all’essenza della natura umana. Un libro da studiare, più che da leggere, o, almeno, da rileggere una seconda volta con attenzione, per meglio assimilare i tecnicismi, i sincretismi, i neologismi, disseminati lungo tutto il percorso, da un timoniere straordinariamente inventivo e colto, ma forse, non sempre alieno, da un certo auto-compiacimento intellettualistico.

    Il paradigma perduto del titolo per molti lettori può, in fondo, rimanere oscuro, vista la programmatica apertura al dubbio di molti passi cruciali del libro e data la complessità di concetti, che, sempre ‘afferrabili’, non necessariamente sono con chiarezza interiorizzabili. Ad ogni modo, appare evidente, in quest’opera, la valenza di manifesto ‘della complessità’, in un titanico progetto interdisciplinare di filosofia e antropologia, dove viene abbattuta la riduzione dell’homo a faber e sapiens, a vantaggio di una definizione fortemente dicotomica di homo ‘sapiens-demens’. Una versione di uomo nuova, dove la sragione diventa importante come la ragione, il caos come l’ordine, e dove dall’errore scaturiscono formidabili progressi. Un film, quello scritto da Morin (non a caso esperto di vero cinema e occasionale regista), con scene preistoriche affascinantissime, sulle tracce di antropoidi e foreste, savane e caccia, sepolture e arte, in una paleo e proto storia, nel lunghissimo percorso dell’’ominizzazione’. L’uomo, ci fa capire l’autore, non è definibile da schemi di ristretto biologismo, nè da concezioni letterariamente ‘sopra-naturali’ di tanto antropologismo. Tanto meno da visioni che ignorano la vita e la storia, come quelle scaturenti da astratti sociologismi. L’uomo di Morin, in attesa di una sempre invocata, ma un po’ enigmatica, ‘scienza nuova’, si configura, al tempo stesso, come specie, società ed individuo, secondo una versione integralmente ecologista della nostra condizione. Ecco, quindi, spiegata l’insistenza sull’interdipendenza tra sviluppo del cervello umano e nascita della cultura. Senza un ambiente culturale preesistente non si può infatti spiegare fino in fondo lo sviluppo cerebrale del sapiens, così come lo sviluppo sociale può accompagnare un ulteriore avanzamento culturale. Alla natura, nella sua essenza biologica, tocca il prima e il dopo. Per Morin, infatti, ‘’l’uomo è un essere culturale per natura, perché è un essere naturale per cultura’’.

     

    Ettore Zecchino

    Geni, Popoli e Lingue

    Best seller internazionale di un grande italiano, da poco scomparso, ‘Geni, Popoli e Lingue’ (editore Adelphi), è un libro delle ‘Due Culture’ per eccellenza, programmaticamente orientato a unire indissolubilmente vari rami del sapere, alleati nella ricerca di grandi verità scientifiche. Al tempo stesso, l’opera è una delle più rappresentative di Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista per convenzione, enciclopedico per cultura e vocazione. Leggendo questo piccolo grande libro, pubblicato negli ultimi anni del secolo scorso, ma ancora molto attuale, ci si imbatte, infatti, in una ‘summa’ del metodo intellettuale e scientifico dell’autore, ulteriormente arricchito negli anni successivi, nel corso di un’esistenza lunghissima, dedicata fino all’ultimo alla ricerca. Una ricerca che per Cavalli Sforza è sempre stata multi-disciplinare, e che, in questo caso, mette insieme, genetica e statistica, biologia e matematica (quest’ultima mai ‘esibita’). E, con lo stesso grado di rigore, archeologia e paleontologia, storia e demografia, geografia, medicina, e ovviamente linguistica, abbozzando un elenco che può, tuttavia, continuare a lungo, tra collegamenti e rimandi di crescente ampiezza.

    Strutturato in una prefazione e in cinque capitoli, il saggio scaturisce da due corsi tenuti al College de France, nel 1981 e nel 1990, e in esso l’autore riversa buona parte delle sue intuizioni e delle sue scoperte nello studio della genetica delle popolazioni, disciplina che tanto deve ai suoi contributi. Obbiettivo dichiarato e raggiunto è quello di mostrarci come geni, popoli e lingue, nel titolo significativamente in maiuscolo, si siano irradiati parallelamente, attraverso una serie di migrazioni che hanno avuto origine in Africa. Al lettore si presenta, quindi, un’avvincente cavalcata lungo centomila anni di storia, alla scoperta di origini comuni, evoluzioni continue, migrazioni, scoperte, evoluzioni culturali, differenze e similitudini, proporzioni matematiche e continue evidenze statistiche. Il tutto in uno stile lineare e comprensibile, non solo, e forse non tanto, per un sempre apprezzabile fine divulgativo, quanto piuttosto per una più efficace fruibilità interdisciplinare. Cavalli Sforza sembra infatti rivolgersi continuamente ai ‘colleghi’ archeologi, storici, linguisti, ai quali offre nuovi stimoli e pone nuove domande, nella consapevolezza della irriducibile unità del sapere. L’evoluzione, per l’autore, non è infatti solo materia di geni, e dal libro, pur rigorosissimo nell’individuare qua e là evidenti meccanicismi, traspare una considerazione altissima per l’incidenza della ‘cultura’, nella sua accezione più ampia, e, quindi più vera, come base per tanti mutamenti e differenze tra popoli, e, prima ancora, tra uomini. Il linguaggio, la maggiore delle ‘invenzioni’ umane, è quindi considerato dall’illustre genovese un frammento straordinariamente importante nel mosaico dell’evoluzione. Un’invenzione, comunque, preordinata geneticamente dalla nostra struttura fisica. Perno dell’evoluzione umana diventa quindi proprio la cultura, peraltro trasmissibile a un numero di soggetti potenzialmente illimitato, e certamente enormemente più ampio di quelli coinvolti in una trasmissione genetica propriamente detta. Senza contare la straordinaria rapidità potenziale del processo. Ecco così delineata una versione dell’evoluzione lontanissima da quella incentrata sul concetto di razza, qui, come in molta parte della sua produzione, demolito da Cavalli Sforza, che, con un approccio mai dogmatico, ne dimostra l’assoluta ineffabilità.
    ‘Geni, Popoli e Lingue’ è un libro che ha ormai varcato il mezzo secolo di vita, ma che continua ad essere attualissimo, come dimostrano le considerazioni finali sull’andamento demografico e, in fondo sulla sostenibilità ambientale, dove l’autore non esita a sostenere tesi, per lo più ottimistiche, ma non sempre condivise dalla comunità scientifica nel suo complesso. Resta, tra gli altri, il rimpianto di non poter leggere nuovi studi e nuove ricerche di Cavalli Sforza in un’epoca tristemente pandemica, quale è quella che ci è dato di vivere in questi anni. In un momento in cui a trionfare è la paura, risuona comunque una sua celebre massima, secondo la quale ‘’la scienza fa paura agli ignoranti, e quando non fa paura delude: ma anche qui, per ignoranza’’.

     

    Ettore Zecchino

    La salute non è in vendita

    Coraggioso compendio in forma divulgativa del pensiero di Giuseppe Remuzzi sul nostro servizio sanitario nazionale, ‘La salute non è in vendita’ (editore Laterza) è un saggio tascabile, pubblicato nel novembre 2018, circa un anno prima dell’avvio della terribile pandemia ancora in corso. Il mondo è cambiato in fretta e molte operazioni culturali di questo tipo segnano il passo, evidenziando una rapida senescenza. Non è certo il caso di quest’opera. Molti dei temi trattati hanno infatti anticipato alcune visioni della medicina affermatesi in era COVID, confermando il carattere profetico di alcune tesi dell’autore (tra l’altro, un intero capitolo è stato riservato all’importanza letteralmente unica dei vaccini per i progressi della medicina). In altri casi subentra invece, una evidente problematizzazione, capace di intrigare maggiormente il lettore, e, auspicabilmente, di invogliare lo scienziato, protagonista assoluto di questa stagione pandemica, a nuove ‘fatiche’. In ogni caso, l’’operetta’ si legge tutta di un pezzo, sia per le acclarate doti comunicative del suo autore, sia per un’onestà intellettuale e un sano spirito polemico, rari a rinvenirsi in lavori di questo tipo. Se, quindi, al netto della precisione e puntualità delle argomentazioni utilizzate , non troppo stupiscono gli accorati appelli a un investimento più serio e costante da rivolgere alla ricerca e a una intelligente e mirata prevenzione. Se, allo stesso filone si può far risalire la preghiera alla politica di ascoltare la scienza (ecco un punto forse ribaltato dal COVID), non stupisce nemmeno, per un ‘big scientist’ del calibro di Remuzzi, la notevole fiducia nella robotica e l’afflato progressista verso l’impiego sempre più imprescindibile dell’alta tecnologia in medicina. Parole appassionate sono poi spese per un altro tema sulla bocca di tutti, come la valorizzazione dei giovani medici. In questo caso, però, l’autore non esita a collegare questo obiettivo a un inevitabile ‘ridimensionamento’ dei colleghi più esperti, ‘puniti’, tra l’altro, con l’eliminazione dell’intramoenia, occasione permanente di diseguaglianze fondate sul reddito, e ‘relegati’ a un impiego nel privato. Proprio sul rapporto tra pubblico e privato si leggono alcune tra le pagine più significative del libro, capaci di restituirci l’immagine di un Remuzzi sostenitore a oltranza del servizio pubblico, e, quindi, fortemente polemico nei confronti dell’attuale ‘parallelismo’, per lui incomprensibile, con il privato. L’illustre bergamasco non esita a considerare il nostro sistema sanitario assolutamente squilibrato a favore del privato, di fatto in larga parte finanziato direttamente o indirettamente dal pubblico. I due mondi, per Remuzzi, raramente si integrano virtuosamente, mentre, di norma, semplicemente, si sovrappongono. A pagarne le spese è inevitabilmente il malato, in balia di criteri di valutazione delle strutture sanitarie, fondate su un’ottusa ragione economica, e non su reali esigenze di cura. Ragione economica ottusa anche perché incapace, a causa di croniche carenze di programmazione, di mettere a frutto un surplus notevole che la sanità può offrire anche in questo campo.
    Non che altri sistemi se la passino meglio. E qui emerge un Remuzzi patriottico, che, numeri alla mano, può evidenziare pecche molto maggiori di realtà ben più celebrate della nostra, a partire da quella statunitense. L’attaccamento per la natura ‘pubblica’ del servizio sanitario affonda le sue radici in profondi convincimenti dell’autore, che non esita, pur nel poco spazio concesso dall’agilità dell’opera, ad argomentare anche in maniera politologicamente accattivante, mostrando di ammirare Obama, ma citando niente meno che il ‘marxismo’ sanitario, e non esitando a portare sul banco degli imputati mostri sacri della storia, del calibro di Dwight D. Eisenhower. ‘La salute non è in vendita’ è infatti anche una arricchente occasione per fruttuosi excursus nello spazio e nel tempo, guidati sempre da dati, numeri, studi, ricerche, padroneggiati e ben spiegati da Remuzzi, non a caso uno dei pochi connazionali da decenni continuativamente accreditato nei più alti consessi della ricerca medica mondiale. Sarà forse questa autorevolezza, anche morale, a consentirgli di esprimere forti dubbi su tante strategie di cura, molto simili all’accanimento terapeutico, per soggetti meritevoli di una morte più dignitosa, e, per certi versi, più naturale di quella a volte somministrata da una medicina che non riesce a capire quando è opportuno fermarsi. Altrove, nel libro, Remuzzi si consente prese di posizione veramente nette, come quella, assolutamente senza sconti, contro l’omeopatia negli ospedali pubblici, o contro la nuova direttiva europea sugli orari di lavoro, che impiegatizza e sindacalizza a oltranza i medici, spesso loro malgrado. Per non parlare dell’attacco frontale agli attuali criteri di valutazione del servizio sanitario nazionale, o alla pretesa di fondare la medicina territoriale su liberi professionisti.
    Dove trovare, quindi, i soldi per migliorare le cose? Elementare Watson, sembra dire Remuzzi: ‘’chiudendo i piccoli ospedali (tutti, non solo qualcuno), e accreditando il privato solo per quello per cui il pubblico è carente’’. A tutti deve infatti essere garantito il livello più alto possibile di buona sanità, per Remuzzi incompatibile con i piccoli ospedali (fisiologicamente carenti per dotazione organica e strutturale), ma incompatibile anche con una immotivata dispersione di denaro in attività fintamente concorrenti tra pubblico e privato.

    Insomma, un libro documentato e ragionato, ma corsaro quanto basta per intrigare anche il lettore più intransigente. Si sente solo il bisogno di una medesima operazione a pandemia conclusa e inclusa.

     

    Ettore Zecchino

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