Invito alla lettura

    Ulisse

    Avvincente rivisitazione dell’’Odissea’ omerica, ‘Ulisse’ (L’Ultimo degli eroi) di Giulio Guidorizzi (editore Einaudi), ci offre un punto di vista ‘femminile’ sul grande vincitore di Troia. Se, infatti, protagonista indiscusso del libro rimane il mitico Odisseo, la sua figura viene raccontata, meglio sarebbe dire esaminata, attraverso i pensieri e le parole delle donne da lui sedotte nel corso del suo lungo e straordinario viaggio di ritorno verso la sospirata patria Itaca. Pensieri e parole in larga parte immaginati dall’autore, o, comunque, messi in maggiore evidenza rispetto al poema originale. Ecco, dunque, che il capolavoro omerico, da archetipo assoluto di ogni ‘viaggio’, viene qui rappresentato come fatale itinerario alla ricerca della propria essenza di uomo. Ulisse, infatti, per Guidorizzi è, come ben anticipa il titolo, un eroe che avrà la sua consacrazione definitiva in quanto uomo. L’ultimo essere chiamato ad avere un piede nel mondo mitico dagli eroi, ma forse il primo a meritare fino in fondo l’impegnativa definizione di uomo. Un uomo speciale, forse unico, capace di sedurre donne e dee, ma desideroso di vivere ed affermare fino in fondo la propria umanità. Di qui il convinto rifiuto dell’immortalità offertagli dall’innamorata Calypso. Di qui la sincera esternazione delle proprie emozioni più profonde, a scapito della sua sinistra fama di incallito ingannatore. Ulisse non dissimula sempre, e, come tutti gli eroi omerici non si vergogna di piangere. Il suo non è però il pianto ‘marziale’ di Achille sul corpo di Patroclo, né quello paterno del vecchio re Priamo sul cadavere smembrato e insepolto del figlio maggiore Ettore. Quello di Ulisse è anche un pianto ‘moderno’, spesso malinconico, intriso di nostalgia e malinconia, per episodi ‘concretamente’ tragici, ma anche per l’angosciante consapevolezza di una assoluta, eppure fatalmente attrattiva precarietà esistenziale. Gli dei non sono più i numi capricciosi e dispettosi spettatori di una guerra, come quelli sotto le mura di Troia, ma problematiche proiezioni di desideri pienamente umani. E così, scopriamo una volta di più che la vera ‘amante’ di Odisseo è Circe, che rinuncia alla sua natura di maga, stregata a sua volta dall’unicità di un uomo che non esita ad aprire completamente il proprio cuore a lei. Un uomo, chiamato, tuttavia, a un proprio destino, irreversibilmente altro, non solo in senso amoroso. Lo proveranno, con altrettanta evidenza, le straordinarie esperienze con le ‘Sirene’ incantatrici, in questo libro anche parlanti, in una ‘scena in tutto e per tutto cinematografica’, e con la dea Calypso, sensuale come e più di una donna in carne e ossa, anche se destinata a produrre prolungatissime ‘sospensioni incantate’. O ancora come l’immediata rinuncia a una possibile ‘seconda vita’ accanto a una giovane pura e serena, come la regina Nausicaa, sua salvatrice nella beata isola dei Feaci. Esperienze che l’uomo riesce a vivere intensamente, ma mai fino in fondo, logorato, prima ancora che da un amore da preservare, da un inquietudine di fondo, capace di guidare ogni suo percorso. Probabilmente sarà proprio questa sua caratteristica ad ispirare a Guidorizzi un finale ben più aperto di quello omerico. Un finale che, in realtà, offre a Penelope un meritato ruolo di co-protagonista. Se Circe, più ancora di Calypso, è infatti, la vera amante di Ulisse, e Atena la sua ispiratrice e protettrice (in qualche caso addirittura affettuosa, ma come lo può essere una dea ‘maggiore’ dell’Olimpo), Penelope è la sua compagna di vita. La regina di Itaca acquista nel ‘romanzo’ una dimensione psicologica profondissima e, per certi versi, nuova. La psicoanalisi, si sa, ha tratto grande ispirazione dai miti greci, e la Penelope di Guidorizzi è lontanissima dal modello di donna fedele che attende. La sua, infatti, è un’attesa ‘attiva’. Anche Penelope viaggia continuamente, ma lo fa nei suoi sogni, attraverso le sue pitture, in un mondo interiore complesso ed evoluto. Anche lei, come il marito, esercita fino in fondo la ‘metis’, quella intelligenza duttile, capace di adattarsi alle circostanze, che le consente di ingannare costantemente i proci che la ‘assediano’. La Penelope di Guidorizzi è sicuramente una donna capace di parlare anche alle nostre contemporanee ed è in viaggio come il marito. Proprio come lui vive di inquietudini supplementari e, al suo ritorno sembra consapevole della provvisorietà della gioia riservatale. In qualche modo, Penelope è entrata nella parte di colei che attende.

    Molti secoli dopo qualcuno ha detto che ‘’la vita è quello che accade mentre stai facendo altre cose’’. L’esistenza adulta di Penelope si è sublimata nell’attesa, vero e proprio perno di un suo consapevole ruolo dall’alto spessore tragico. Un ruolo completamente sganciato da quello di un marito verso il quale esprime il massimo della rispettosa fedeltà, ma sempre congiunto a una piena autonomia intellettuale, prima che umana. Situazione, questa, ben evidente già ai tempi della sua ‘volitiva’ scelta del giovane ‘isolano’, tra tanti pretendenti più blasonati, nella Sparta degli anni migliori.
    Forse per questo, Giulio Guidorizzi sembra alludere, nel finale, alla ripresa di un ‘doppio’ viaggio, dai contorni incerti e misteriosi.

    Ettore Zecchino

     
    Dio e la scienza

    Best seller di fine secolo in Francia, ‘Dio e la scienza’ (verso il metarealismo) porta la firma dell’allora ‘giovanissimo novantenne’ Jean Guitton, in ‘dialogo’ con i due gemelli franco-russi Grichka e Igor Bogdanov, all’epoca divulgatori scientifici della televisione transalpina. Il successo del libro, in Italia editato da Bompiani nel 1993, con la prefazione di Giulio Giorello, deve molto a questa formula, ma, forse, in essa incontra anche alcuni dei suoi limiti più evidenti. Notevole appare infatti il dislivello fra i tre e la concordanza di fondo nell’argomentare sembra figlia di una certa soggezione intellettuale dei due fratelli, pur brillantissimi nel ruolo di spalla del protagonista e di straordinari divulgatori del suo pensiero, cui di fatto, spianano scientificamente la via. E forse proprio questo appare come un altro pregio-difetto del libro, a quanto pare successivamente derubricato a volumetto di second’ordine dallo stesso Guitton. L’operazione, insomma, sembra, almeno a distanza di anni, eccellente da un punto di vista editoriale, un po’ meno sul piano cultural-scientifico. A provarlo, forse, è il destino non brillantissimo del ‘metarealismo’ del sottotitolo, immaginato dal grande francese come una sorta di nuovo corso filosofico.
    Il volume, in ogni caso, affronta con coraggiosa determinazione un tema trattato più volte in passato, ma raramente in forma così esclusiva: quello, sempre suggestivo, del rapporto tra scienza e divino, dove la scienza è soprattutto la fisica, che, nelle sue declinazioni quantistiche, è interpretata da Guitton come una sorta di scala verso Dio. Quel Dio per lui già palese nell’impressionante atemporalità dell’istante ignoto che precede la nascita dell’Universo e nella miracolosa improbabilità statistica alla base del fenomeno vita, ma che diventa ancora più esplicito nella natura ‘spirituale’ che non esita ad attribuire alle sempre più evanescenti particelle subatomiche, definite come delle tendenze ad esistere.

    Il punto di arrivo, pur raggiunto attraverso una straordinaria sapienza divulgativa, si colloca al termine di una intensa galoppata nei sentieri ‘fantastici’ della meccanica quantistica e conferma la citazione introduttiva, attribuita a Pasteur, secondo cui ‘’un po’ di scienza allontana da Dio, ma molta riconduce a Lui’’. Una fiducia nella scienza, nei suoi linguaggi, nei suoi metodi, rivelatasi assoluta in Guitton, che quasi sempre ragiona e argomenta presupponendo la validità del cammino tracciato da scoperte e studi recenti, anche quando dal contro-intuitivo sembrano giungere all’inverosimile. Tranne, forse, che nella teoria degli universi paralleli, respinta per presunta incongruità logica.
    Jean Guitton si conferma, quindi, un uomo del nostro tempo, con la sua elasticità mentale, e con la sua insopprimibile sete di libera conoscenza. Disposto, per essa, a sbarazzarsi in un sol colpo (ma ovviamente come conseguenza di riflessioni pluridecennali) di grandiosi retaggi filosofici. E così, ecco scomparire ogni divisione possibile tra materia e spirito, trasformati quasi in un indistinto nello straordinario mondo della fisica odierna, dove per Guitton il ruolo di Dio potrebbe essere quello di un osservatore quantistico dell'intero Universo. In fondo, per dirla, con il suo riverito maestro Bergson ‘’l’universo è una macchina che produce degli dei’’.

    L’uomo di fede emerge, quindi, ovunque, e si spinge a piegare alla causa ogni spunto, ogni traccia, incontrati nell’esplorazione scientifica dell’Universo. Come quando sembra quasi esultare nello scorgere nelle particelle elementari gli einsteiniani dadi di Dio, con i quali, tuttavia, è l’uomo a giocare, nella sua spiritualità quantica. O come quando si compiace della natura dell’evento vita, definita ‘’miracolosa’’ da Francis Crick, scopritore del dna. Una visione da contrapporre idealmente alla per lui raggelante emersione del caso, autorevolmente proposta dal biologo Jacques Monod nel suo celebre ‘Le hasard et la necessitè’, richiamato da Giulio Giorello all’inizio della sua prefazione.
    D’altra parte, è proprio il laico Giorello a riconoscere l’onestà intellettuale e la plausibilità della proposta di Guitton, che, pur non esente da inevitabili influssi tomistici, ‘’non vuole costringerci a credere, piuttosto offre un esempio di come la sua fede personale può crescere e ravvivarsi nel confronto con la scienza, senza rassegnarsi all’insignificanza del Mondo e degli uomini’’.

    Insomma, un’opera lodevole e stimolante, solo sopraffatta dalla grandiosità del tema e dei conseguenti obiettivi, tali anche per un gigante come Guitton.
    ‘’Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’io dico è un semplice lume’’. (Dante - Paradiso XXXIII).

    Forse, ancora oggi, a certe altezze può condurre solo la più sublime tra le opere poetiche!

     

    Ettore Zecchino

    La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni

    Estratto da un celebre discorso pronunciato all'Athénée  Royal di Parigi nel febbraio del 1819, il saggio ‘La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni’ di Benjamin Constant (editore Einaudi) è un libretto di poche, ma densissime pagine, capace di sistematizzare temi dibattuti per secoli, e, al tempo stesso, di aprire una nuova pagina della storia, di quella del liberalismo in particolare. In questo scritto Constant sostiene che la libertà presso i popoli antichi si misurava, essenzialmente, con riguardo al livello di partecipazione alla vita pubblica. Si trattava, quindi, ad ogni evidenza, di una libertà riferita al cittadino, soprattutto nell’accezione greca di abitante della ‘polis’, e non all’individuo. Una libertà, quindi, intesa esclusivamente nella sua accezione in seguito definita, con qualche approssimazione, ‘positiva’, come capacità di gestione collettiva della cosa pubblica, a vantaggio della quale andavano sacrificati eventuali impulsi a un suo trasferimento nella sfera ‘privata’. All’opposto, la libertà dei moderni è, (sempre secondo una definizione storica) ‘negativa’, in quanto riferita alla garanzia per l’uomo (all’epoca di Constant, da intendere come persona di genere maschile), di non essere ostacolato dall’autorità pubblica in tutti gli aspetti della propria vita non nocivi alla comunità. Una differenza enorme, eppure, secondo Constant, non compresa dai giacobini, che pretendevano di fare la rivoluzione in nome di una libertà ormai anacronistica. La società moderna è infatti estremamente più articolata ed estesa, a partire dall’aspetto puramente dimensionale ed anagrafico. Non si può, quindi, deliberare collettivamente in piazza, come invece avveniva nell’agorà greca. I cittadini moderni, inoltre, non dispongono di schiavi, ai quali delegare le incombenze quotidiane, per dedicarsi in via quasi esclusiva alla vita pubblica. La società moderna è, tra l’altro, fondata sul commercio, visto come un’evoluzione della guerra, alla base, invece, della società antica. E il commercio, contrariamente alla guerra, non prevede interruzioni. L’uomo moderno, quindi, non può mai sottrarsi alle sue occupazioni private, dalle quali attinge le proprie ricchezze e i propri agi, di cui vuole poter disporre liberamente. Naturalmente, si affretta a precisare Constant, neppure l’uomo moderno si può consentire il lusso del disinteresse rispetto alla cosa pubblica. Di qui, la fortuna dell’istituto della rappresentanza, capace di garantire a tutti una partecipazione, sia pur indiretta, alle attività di guida e di governo di un Paese, per altro, nella visione di Constant, riferita pure alle amministrazioni territoriali. D’altra parte, il ricorso eccessivo a quest’istituto può pregiudicare la natura veramente libera di un popolo, esponendolo, anche in assenza di vere e proprie derive tiranniche, a degenerazioni oligarchiche o a forme più o meno velate di dittatura, della maggioranza, o, addirittura, di singole minoranze. Un pericolo assoluto, ben messo a fuoco anni dopo da Alexis de Tocqueville, capace di vanificare qualsiasi aspirazione alla libertà individuale, tanto cara ai moderni. Ecco, quindi, che, con buona pace di tanti autorevoli interpreti di Constant, le due libertà nel pensiero dell’autore sono, in realtà fortemente interconnesse. Per Constant, in particolare, non si può parlare di libertà in termini assoluti quando una società umana non riesce a mantenere il giusto equilibrio tra queste due sue declinazioni.

    Il carattere dirompente del testo e l’acume di alcune sue tesi hanno, come spesso capita in questi casi, consentito interpretazioni differenti, a volte del tutto contrastanti, di quest’opera, ora letta in chiave marxista come una manifestazione di conservatorismo borghese, ora come una delle più riuscite celebrazioni di una liberal-democrazia da compiersi. In realtà, Benjamin Constant, liberale convinto ed estimatore di Adam Smith, ma non strettamente liberista, sembra, al riguardo, mantenersi su un piano problematico. Da un lato, infatti, pare presumere la democrazia come sfondo ideale per un pieno sviluppo storico delle idee liberali, dall’altro, con la netta preferenza accordata alla libertà individuale, sembra ammonire che liberalismo e democrazia siano costrette a coabitare, ma mantenendo sempre proprie evidenti specificità e differenti finalità ultime.

    Come tutte le opere di questo spessore, ‘La libertà degli antichi’ genera continui dibattiti, anche a distanza di due secoli dalla sua pubblicazione, legittimando anche occasionali e non infondati ridimensionamenti. Come quelli operati da chi rimprovera l’autore per una disamina del mondo antico troppo parziale ed imprecisa, o forse, troppo modellata sulla Atene di Pericle o, alternativamente, sulla Sparta degli efori. Come non rimanere perplessi, infatti, rispetto a una ‘standardizzazione’ tra polis greca e repubblica romana? Come negare la presenza, anche nel mondo antico, almeno in quello greco-romano, più direttamente preso in esame dall’autore, di libertà individuali, che non si limitano certo allo sviluppo commerciale di Atene, dall’autore elevata a realtà (solo per alcuni aspetti) comparabile con quella moderna? E come non citare almeno Hegel e le sue considerazioni sull’invenzione romana del diritto privato?

    In realtà, Constant, a leggere bene il suo denso saggio, al netto di semplificazioni e ‘compressioni’ dovute alla necessaria sintesi oratoria, sembra suggerire una sostanziale coincidenza degli aneliti e delle esigenze di libertà degli antichi e dei moderni, incamminati su percorsi diversi ‘solo’ per la notevole diversità del quadro storico sottostante. Insomma, anche gli antichi volevano poter raggiungere indisturbati il massimo del godimento possibile, ma, in una società basata sulla schiavitù, massimo godimento era, probabilmente, il poter essere liberi, nell’accezione basica del termine, e rimanere in questo stato quanto più a lungo possibile. Condizioni garantite solo dal pieno sviluppo della propria partecipazione pubblica, in grado di motivare il proprio impegno diretto contro il rischio di schiavitù esterne (il cittadino greco combatte per se le guerre e per questo riesce a esprimere frequenti ‘eroismi’) ed interne, come antidoto a derive autoritarie e oligarchiche del potere.

    Anche quello della libertà, sembra volerci dire Constant, è un cammino evolutivo, ma la sua intelligenza, definita elogiativamente illuministica, non poteva prevedere la beffa di una storia che avrebbe sconfessato alcuni dei presupposti di questo libro. Il commercio, ad esempio, sarà pure un’evoluzione della guerra, ma di certo non è riuscito a impedire le insuperate tragedie belliche novecentesche, né i feroci totalitarismi fioriti come loro maggiori cause ed effetti. In fondo, ‘romanticamente’, il passato ha in sé elementi del presente e anticipazioni del futuro.
    Dunque, Benjamin Constant, campione del Romanticismo in letteratura, nell'analisi storica era un illuminista o un romantico?

     

    Ettore Zecchino

     

    Saggio sulla libertà

    Capolavoro indiscusso della saggistica filosofico-politica ottocentesca, il ‘Saggio sulla libertà’ (On Liberty) di John Stuart Mill (editore Il Saggiatore) si offre a noi contemporanei come un pensiero militante più ancora che come un classico, vista l’attualità che riesce a esprimere in molti suoi passaggi chiave, soprattutto i più problematici ed aperti. Oggetto dell’opera, come si affretta nei primi righi a precisare l’autore stesso, è la libertà civile o sociale, studiata, soprattutto, in rapporto alle legittime limitazioni imposte contro di essa dallo Stato. Interventi, questi, accettati ed anzi incoraggiati, essenzialmente solo se diretti alla difesa della comunità stessa. Un principio, questo sì, divenuto un classico, e, a onore del vero, non esclusivo di Mill, ma da questi declinato sicuramente in maniera esemplare.

    Centrale nel ‘Saggio’ è la libertà di pensiero e discussione, cui è dedicato un intero capitolo, e che è esplicitamente considerata un bene supremo, meritevole di protezione assoluta. Senza la possibilità di pensare liberamente, infatti, l’umanità non potrebbe fare alcun passo avanti nella direzione del progresso e di una pur parziale e provvisoria verità, ai quali per natura, dovrebbe tendere. A tutti, per corollario,  va sempre concesso il pieno diritto di esprimere le proprie convinzioni, in particolare se minoritarie e originali. E il confronto che ne nasce diventa la sicura premessa del successo di una comunità. La verità, infatti, va messa in discussione e-o difesa continuamente, fugando così il rischio di una sua riduzione a dogma, accettato passivamente, e, gradualmente, poco o mal compreso. Opportuno è inoltre considerare sempre la sua parzialità ed emendabilità. Anche una sola opinione dissenziente in tutto il mondo andrebbe quindi, consentita e coltivata, come potenziale ragione di sovvertimento, o come rafforzamento della verità preesistente. Una vera comprensione dei fenomeni, d’altra parte, per Mill può arrivare solo da un procedimento per negazione ‘socratico’, o, al limite ‘medioevale scolastico’. E non è un caso se proprio il sommo ateniese sia indicato come martire per antonomasia della libertà. Una condizione, quella di Socrate, inflitta a tanti altri uomini, anche da parte di grandissimi ingegni, spesso animati da indubbia carica etica (e qui l’empatia mostrata dall’autore per il grande Marco Aurelio e le sue ‘penose’ persecuzioni contro i cristiani è totale). Proprio per questo, le eccezioni alla regola devono essere limitatissime, non mettendo quasi mai in campo la ‘scivolosa’ morale.

    Di pari passo con la tutela della libertà va quindi considerata essenziale la valorizzazione dell’individualità, vista come motore del bene comune, grazie al propellente dell’originalità, alla base di ogni ‘creazione’ umana e terreno di coltura della genialità. Uno Stato lungimirante deve guardarsi bene dall’accrescere la sua burocrazia (anche quando qualitativamente eccellente), puntando, invece, a stimolare sempre l’autonomia e l’energia vitale dei singoli, per non accorgersi troppo tardi che ‘’con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi’’.

    Più o meno con tali parole si conclude questo densissimo saggio, fonte di stimoli notevolissimi, nelle direzioni più disparate. Non è un caso se, sempre con una qualche plausibilità, sia stato considerato, rispettivamente, una delle massime espressioni del sistema liberale classico, oppure l’atto di nascita del liberal-socialismo, vista una qualche apertura, da parte di Mill, al concetto di ridistribuzione dei beni prodotti, e vista la piena legittimazione di un certo tipo di tassazione come sano strumento di politica economica. E ancora, l’ingresso del liberalismo in nuovi mondi. Tra questi, spicca la battaglia per il suffragio universale assoluto ( pur in grande anticipo sui tempi, Mill immaginava, tuttavia, una sorta di voto ponderato, in base alla ‘cultura’ dell’elettore). Nemmeno in questo caso, tuttavia, l’individualità può essere ridimensionata, e, sulla scia dell’ammirato Tocqueville, la dittatura della maggioranza viene stigmatizzata come non meno temibile di tanti dispotismi (tesi attualissima e praticamente alla base di quasi tutti gli studi contemporanei sul fenomeno del populismo). Rilevante è poi la perorazione, sviluppata nella sua pienezza in un celebre saggio successivo, della completa parità tra i sessi. L’influenza culturale della compagna Harriet Taylor su molta parte della sua produzione culturale è da Mill stesso sempre abbondantemente riconosciuta, e costituisce, nello specifico, l’incipit di quest’opera. D’altra parte, l’intensità di questo rapporto tra i due potrebbe regalare l’Oscar a qualsiasi regista ispirato.

    Anche in Italia il ‘Saggio sulla libertà’ ha goduto e gode di grande considerazione, tanto da aver favorito riflessioni e riletture negli ambiti più disparati, da Gobetti a Rosselli, passando per Sturzo, fino al più ‘ovvio’ Einaudi, ma, significativamente, è stato molto ridimensionato dalla cultura idealistico-crociana. In tempi di pandemia e di rinascenti terrorismi, con i problemi di privazione di libertà che tali fenomeni possono determinare, ci sembra quindi ragionevole ritornare al Saggio milliano, come a un ideale stimolo culturale, nella speranza di illuminare la nostra strada. Dopo tutto, una città non marginalmente presente nella gestazione dell’opera sembra sia stata l’italianissima e problematicissima Napoli.

     

    Ettore Zecchino

    Il paradigma perduto

    Opera oltre le ‘Due Culture’, con la sua tensione permanente verso un’ideale unità dei saperi, ‘Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana’ (editore Mimesis) è uno dei saggi più rappresentativi di Edgar Morin, ‘‘l’uomo-secolo’’, secondo la suggestiva definizione coniata per lui dal presidente francese Emanuel Macron, in occasione dei festeggiamenti per il traguardo dei 100 anni, raggiunto lo scorso 8 luglio. E, in fondo, con riferimento al ‘900, si può senza dubbio prendere a prestito questa definizione anche per ‘Il paradigma perduto’, mirabile sintesi delle più avanzate speculazioni intellettuali in varie branche della cultura occidentale, dalle ‘consolidate’ storia, filosofia, biologia, archeologia, politica, alle ‘moderne’ paleontologia, antropologia, psicoanalisi, semeiotica, cibernetica, informatica, ecologia. Uno sforzo davvero notevole, incurante di ogni ‘gelosia’ o esclusivismo professionale di tanti accademici di peso, e orientato alla emersione di sempre nuove domande, più che alla rassicurante certezza di precise risposte, intorno all’essenza della natura umana. Un libro da studiare, più che da leggere, o, almeno, da rileggere una seconda volta con attenzione, per meglio assimilare i tecnicismi, i sincretismi, i neologismi, disseminati lungo tutto il percorso, da un timoniere straordinariamente inventivo e colto, ma forse, non sempre alieno, da un certo auto-compiacimento intellettualistico.

    Il paradigma perduto del titolo per molti lettori può, in fondo, rimanere oscuro, vista la programmatica apertura al dubbio di molti passi cruciali del libro e data la complessità di concetti, che, sempre ‘afferrabili’, non necessariamente sono con chiarezza interiorizzabili. Ad ogni modo, appare evidente, in quest’opera, la valenza di manifesto ‘della complessità’, in un titanico progetto interdisciplinare di filosofia e antropologia, dove viene abbattuta la riduzione dell’homo a faber e sapiens, a vantaggio di una definizione fortemente dicotomica di homo ‘sapiens-demens’. Una versione di uomo nuova, dove la sragione diventa importante come la ragione, il caos come l’ordine, e dove dall’errore scaturiscono formidabili progressi. Un film, quello scritto da Morin (non a caso esperto di vero cinema e occasionale regista), con scene preistoriche affascinantissime, sulle tracce di antropoidi e foreste, savane e caccia, sepolture e arte, in una paleo e proto storia, nel lunghissimo percorso dell’’ominizzazione’. L’uomo, ci fa capire l’autore, non è definibile da schemi di ristretto biologismo, nè da concezioni letterariamente ‘sopra-naturali’ di tanto antropologismo. Tanto meno da visioni che ignorano la vita e la storia, come quelle scaturenti da astratti sociologismi. L’uomo di Morin, in attesa di una sempre invocata, ma un po’ enigmatica, ‘scienza nuova’, si configura, al tempo stesso, come specie, società ed individuo, secondo una versione integralmente ecologista della nostra condizione. Ecco, quindi, spiegata l’insistenza sull’interdipendenza tra sviluppo del cervello umano e nascita della cultura. Senza un ambiente culturale preesistente non si può infatti spiegare fino in fondo lo sviluppo cerebrale del sapiens, così come lo sviluppo sociale può accompagnare un ulteriore avanzamento culturale. Alla natura, nella sua essenza biologica, tocca il prima e il dopo. Per Morin, infatti, ‘’l’uomo è un essere culturale per natura, perché è un essere naturale per cultura’’.

     

    Ettore Zecchino

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