Invito alla lettura

    Helgoland

    Ennesimo successo editoriale di uno dei fisici italiani più conosciuti all’estero, ‘Helgoland’ (Adelphi-2020) di Carlo Rovelli è un breve saggio dal ‘respiro’ romanzesco sulla storia del decisivo punto di svolta impresso alla meccanica quantistica dal ventitreenne Werner Heisenberg, in solitaria meditazione, nell’estate del 1925, sulla mitica ‘isola sacra’ del Mare del Nord. Una visione maturata in un luogo dove, secondo Goethe, ‘’può essere sperimentato lo spirito del mondo’’ e che si fonda sul concetto di osservabili e sulla matematica delle matrici. Approccio alla base di uno straordinario scatto in avanti per la teoria fisica più importante e più efficace, ma anche più misteriosa, del nostro tempo, all’epoca nata da un paio di decenni, grazie a personaggi del calibro di Max Planck (sicuramente il progenitore), Albert Einstein (un ispiratore) e Niels Bohr (per certi versi, il teorizzatore), ma che era ancora priva di una quadratura scientifica. Tale intuizione viene poeticamente introdotta da Rovelli, che pone l’accento sulla sua nascita ‘romantica’, in una spoglia e spopolata isola sferzata dai venti nel febbrile cervello del giovane Heisenberg. Di lì a poco sarà tuttavia perfezionata, a suon di complessi calcoli matematici, dal confronto con altri rampanti ventenni (Pascual Jordan, Wolfgang Pauli, Paul Dirac), e dall’unico ‘adulto’ del gruppo, il quarantenne Max Born. Un’interpretazione della fisica dei quanti parzialmente ampliata, poco tempo dopo, dall’austriaco Erwin Schrodinger, sostenitore, sulla scia del francese Louis de Broglie, della natura ondulatoria dell’elettrone, visione ugualmente ‘esatta’, eppure subito confinata da Rovelli a prezioso, ma puro e semplice supporto matematico. Il fisico italiano mostra, quindi, una fede incrollabile (consentendoci una parola scivolosa quando si tratta di scienza) per il suo illustre collega tedesco di un secolo addietro, con buona pace di tutte le altre interpretazioni dei fenomeni quantici, scetticamente riportate nel corso del libro.
    Fino ad una sorta di cambio di passo, con l’esternazione della visione ‘rovelliana’ del mondo, considerato come un incessante luogo di ‘interazioni’, dove l’individualità stessa si fonda sul concetto di relazione e dove la sostanza ultima diventa vacuità, inesistenza. Un assunto rafforzato in Rovelli da un’appassionata lettura del monaco buddista Nagarjuna, vissuto quasi duemila anni fa, ‘incontrato’ di recente dopo un prolungato scetticismo, e, per questo, particolarmente persuasivo.
    Il percorso intellettuale e scientifico del fisico veronese è completamente messo a nudo in questo saggio, che si rivela inevitabilmente ‘autobiografico’, e, per questo, necessariamente anche politico, come conferma plasticamente un’intensa digressione sullo scontro Lenin-Bogdanov, all’insegna di ‘materialismo ed empirio-criticismo’. Il tutto all’interno di una visione dell’umanità fascinosa e ottimista, sempre orientata verso un’affratellante unione universale e costantemente volta ad offrire una risposta ‘olistica’ alle più classiche dicotomie del pensiero occidentale, ben oltre il più accentuato spinozismo. E che si fa addirittura allucinata quando Rovelli (nomen omen) si addentra negli ultimi, controintuitivi sviluppi delle neuroscienze rispetto al funzionamento del nostro sistema visivo, scoprendo che il cervello (dall’interno) ‘prevede’ ciò che si trova al suo esterno e lo comunica agli occhi, che invertono la direzione dei messaggi solo quando compaiono ‘discrepanze’ rispetto a quanto il cervello stesso si attende. La percezione esterna, per dirla con Hyppolite Taine, filosofo francese dell’Ottocento, citato da Rovelli, è, quindi, ‘’un sogno interno che riesce ad essere in armonia con le cose esterne’’, come un’allucinazione confermata. Fino a giustificare, quasi in chiusura dell’opera, i celeberrimi versi che il grande bardo inglese mette in bocca a Prospero ne ‘La tempesta’, sulla natura onirica delle nostre entità, la cui ‘’breve vita è circondata da un sonno’’.
    Un congedo poetico e quindi ‘meravigliosamente largo’, capace, forse, di attenuare la vertigine di scoramento che lo scritto ‘rovelliano’ può produrre in un lettore occidentale, non necessariamente credente, inquietato da una teoria disindividualizzante quante altre mai.
    Compromesso finale o consolidamento di una posizione di ‘rottura’?

    Shakespearianamente, questo è il dilemma!

    Ettore Zecchino

     
    Dio. La Scienza. Le Prove. L'alba di una rivoluzione.

    ‘’Ho troppo rispetto per Dio per poterne fare un’ipotesi scientifica’’. Basterebbe questa celebre affermazione dell’abate belga Georges Lemaitre, tra i massimi astrofisici di tutti i tempi e padre della teoria del Big Bang, a stroncare senza appello ‘DIO. La Scienza. Le Prove’ (Edizioni Sonda), best seller da 300mila copie tra Francia e Spagna, un po' meno acclamato in Italia. Sarebbe, tuttavia, ingeneroso e incongruo. Se, infatti, il libro di Michel-Yves Bollorè ed Olivier Bonnassies non rappresenta certamente quell’alba di una rivoluzione, promessa nel sottotitolo, è, senza alcun dubbio, un’interessante opera di buona divulgazione, capace di rimettere al centro del dibattito intellettuale un argomento maiuscolo quanti altri mai. Dell’esistenza di dio, anche solo con la minuscola, si parla, infatti, poco o niente in un Occidente in bilico tra indifferenza e nichilismo. Un lavoro di questo tipo, sia pur un poco ‘zibaldonesco’, bilancia, quindi, un’inerzia materialistica dura a morire, nonostante le sempre più notevoli evidenze ‘culturali’ di segno opposto. Proprio a queste, spalmate su varie discipline, ma con una netta prevalenza del mondo scientifico, si sono appellati l’ingegnere informatico Bollorè e il teologo imprenditore Bonnassies, per costruire un’impalcatura ai limiti della supponenza intellettuale, supportata da un marketing fisiologicamente ‘spregiudicato’, ma, limitatamente alla tesi fondamentale, non troppo facilmente attaccabile sul piano della logica.
    Riserve e perplessità a parte, l’operazione, accreditata e impreziosita dalla collaborazione o supervisione diretta di una ventina di top scientists, inclusi alcuni vincitori del Premio Nobel, riesce e come, premiando un lavoro di oltre tre anni dei due scrittori d’oltralpe. E regalando al lettore, almeno a quello non particolarmente malizioso, delle autentiche perle, come un originale capitolo sulle persecuzioni nazi-comuniste degli scienziati non allineati alle assurde e materialistiche cosmologie di regime, ma, soprattutto, offrendo un ripasso di molte importanti scoperte scientifiche degli ultimi due secoli. O, almeno, di quelle funzionali alla presunta evidenza dell’esistenza di un dio alla base del nostro mondo. Trattasi, indubbiamente, del grosso delle acquisizioni più recenti, prevalentemente negli ambiti fisico-matematico e biochimico. Il tutto in uno stile accattivante e scorrevole, oltre che efficace, consentendo al lettore un discreto livello di confidenza con rivoluzionarie, e allo stato, vincenti teorie scientifiche. Come il secondo principio della termodinamica, che decreta l’inevitabile morte termica dell’Universo, o il Big Bang (definizione sprezzante di un materialista poi ‘convertito’ ed involontaria ‘genialata’ mediatica), che regala, simmetricamente, un inizio all’Universo. E ancora, la regolazione fine delle costanti cosmologiche, che sorreggono l’impalcatura del cosmo con una precisione assolutamente incompatibile con il concetto di casualità. Ultimo, ma non ultimo, il principio antropico, che pone la vita, nella sua ‘improbabilissima’ comparsa, come il fine di queste ‘sublimi precisioni’ cosmiche. Scoperte che, secondo gli autori, sconfessano visioni sistemiche di segno opposto, in auge da alcuni secoli, almeno a partire dalla rivoluzione copernicana e che, sull’affascinante sfondo della relatività e della meccanica quantistica (nei loro specifici campi di azione) convergono nel descrivere un Universo finito e dinamico, nato e destinato a morire, e, quindi, statistica alla mano, secondo gli autori transalpini certamente collegato ad un disegno intelligente. Veri e propri colpi mortali inferti ad un materialismo scientifico spesso arroccato su posizioni sterilmente ideologiche e comunque sempre più in ritirata, a volte anche rovinosa. Questa parte del voluminoso libro (quasi 700 pagine) è quella che più convince e che tradisce una passione maggiore degli stessi autori, accuratissimi nel chiamare in causa decine e decine di illustri scienziati (in testa il sempre gettonatissimo Einstein), inchiodandoli fin troppo zelantemente alle loro più sorprendenti dichiarazioni, più o meno pubbliche. Colpisce, semmai, la implicita attribuzione di ‘responsabilità materialiste’ a scienziati comunque credenti, come Copernico, Galileo o Newton.
    Colpevolmente omissivi Bollorè e Bonnassies appaiono, invece, in ambito filosofico, dove, in uno striminzito capitolo, banalizzano e comprimono i non pochi colpi di genio ‘logici’ sul tema, partoriti da menti sublimi, a partire da Aristotele, pur citato con deferenza in varie parti del testo. Troppo di parte e, in fondo, meno lucide, appaiono, inoltre, le perorazioni di tesi di ardua dimostrabilità, come quelle riferite alla reale natura di Cristo o alla straordinarietà della lunghissima parabola storica israelitica. Ma anche all’unicità assoluta del testo biblico, pur indubbio dispensatore di verità umanamente inaccessibili, e, comunque, del tutto esclusive, all’epoca della sua stesura. Non privo di interesse appare, invece, forse per la minore complessità intrinseca del tema, il capitolo imperniato sulla presunta autoevidenza del prodigio-miracolo principale di Fatima, ricostruito grazie a un’accuratissima, anche se un po' monotona, rassegna stampa dell’epoca.
    I due autori francesi, cattolici praticanti, rimettono quindi la divinità al centro del dibattito in un’opera di divulgazione scientifica che può essere accettata almeno come ‘sfida’, quando, come enunciato da loro stessi in partenza, si limita a decretarne l’esistenza. La sua completa e specifica identificazione si può invece realizzare solo su altri piani, quelli dello spirito e della fede, inattingibili da tutte le scienze. Forse, intuibili dalla grande arte, più in dimestichezza con il processo creativo. Fortunatamente, un patrimonio indiscusso della volontà libera di tutti, magari illuminata da occasionali fotoni divini, lungo il tribolato e umanissimo percorso delle nostre vite.

    Ettore Zecchino

    Ignoranza

    Ultimo acuto del grande intellettuale britannico Peter Burke, ‘Ignoranza. Una storia globale’, pubblicato da Raffaello Cortina Editore, nell’ambito della collana ‘Scienza e Idee’, fondata da Giulio Giorello, è un voluminoso compendio delle conoscenze in nostro possesso sull’ignoranza, realizzate nei più disparati settori dell’umano e sistematizzate solo negli ultimi decenni. Un lavoro certamente in grado di dare una spinta decisiva alla giovanissima e ancora malferma disciplina della storia dell’ignoranza, ma, soprattutto, in grado di offrire una base di partenza per tanti studiosi intenzionati a specializzarsi in questa branca del sapere. Un ambito più vasto di qualsiasi altro, come già ammoniva Francesco Petrarca, e, quindi, al centro di una sfida culturale stimolantissima. Più correttamente, si dovrebbe probabilmente definire una scommessa ‘biculturale’, per quanto il tema può essere fruttuosamente approfondito dalla prospettiva suggerita nel celebre saggio di Charles Percy Snow, non casualmente più volte citato nel libro. Una completa storia dell’ignoranza, al netto del paradosso insito nel tentativo, non può infatti non riguardare direttamente le connessioni profonde tra le due culture, naturalmente in un’accezione ormai ‘storicizzata’, che non può limitarsi al numero 2, come attesta l’accentuata interdisciplinarità della panoramica abbozzata da Burke. Il professore di Cambridge precisa anzi, nella prefazione, di non essere riuscito ad effettuare una ricognizione cronologica (secolo per secolo) della materia, che pure invoca per il prossimo futuro, ma di avere, in compenso, allargato l’indagine a numerosi settori della vita associata. E così, in un arco temporale incentrato prevalentemente sulla prima e sulla seconda Età Moderna, ma con frequenti scorribande in altre epoche, soprattutto nell’antichità classica, Burke ci fa incontrare i vari tipi di ignoranza (consapevole, inconsapevole, parziale, selettiva, intenzionale, individuale, collettiva, organizzativa e moltissimi altri) calati nelle varie branche del sapere e dell’agire umano ed inevitabilmente capaci di produrre ‘conseguenze’ sempre decisive, ma non omogenee tra loro. L’indagine è concentrata sull’Occidente, ma la mole della ricerca ha consentito all’autore frequenti incursioni anche nella storia africana ed asiatica, spesso occasione di approfondimento sulle notevoli lacune nella conoscenza reciproca tra questi mondi, soprattutto, ma non esclusivamente, nei secoli passati. Insomma, si fa presto a dire ignoranza e anche la facile etimologia latina non consente semplificazioni di sorta. D’altra parte, la storia del pensiero, da Socrate ad Agostino, da Cusano a Montaigne, si è incaricata più volte di aggettivare l’ignoranza in maniera ben più sofisticata, o, per lo meno, ‘aperta’. Di sicuro, non è possibile minimizzare lo sforzo culturale alla base di questo bel libro, scorrevole nella lettura, ma complesso nella valutazione. Non originalissimo, eppure addentrato in mondi ancora fascinosamente ignoti ai più. A tratti lapalissiano, ma mai banale, come il monito ad apprendere dalla conoscenza degli errori passati. L’ignoranza, comunque, non è solo il presupposto logico di tutte le conoscenze e le scoperte acquisite dall’umanità, ma, in certa misura, emerge come un motore a sé stante e come un paradossale paradigma culturale per intelletti raffinati. Solo con l’ignoranza, nella sua versione dotta, possiamo spingerci dove le più celebrate epistemologie non arrivano, scoprendo, tra l’altro, che la battaglia contro di essa è impossibile da vincere. A dimostrarlo, sembra suggerire Burke, è proprio il surplus di informazioni e conoscenze collettive dell’umanità attuale, inevitabilmente foriero di altrettanto vasti baratri di annunciata ignoranza. Per non parlare delle smisurate asimmetrie orizzontali e verticali nell’accrescimento culturale dei nostri giorni, illuminati da una sempre più considerevole 'conoscenza', figlia dei Big Data, ma trasfusa solo in minima parte nel bagaglio culturale individuale, anche nei casi migliori. Senza voler dimenticare la notevole cancellazione di cultura e culture preesistenti ovunque nel mondo. In fondo, scriveva brillantemente Mark Twain: ‘’siamo tutti ignoranti, solo riguardo a cose diverse’’.
    Burke pessimista ontologico sul tema? Non proprio, se è vero che, citando il Premio Nobel 2004 per la Fisica David Gross, realizza che ‘’le domande che ci formuliamo oggi sono più profonde ed interessanti’’ che in passato perché ‘’allora non disponevamo di conoscenze sufficienti per essere ignoranti in modo intelligente’’ e, per fortuna, ‘’non c’è alcuna prova del fatto che stiamo esaurendo la nostra risorsa più importante: l’ignoranza’’.
    Chapeau Mister Gross, e anche a Lei, Mister Burke!

     

    Ettore Zecchino

    ''Zitto e calcola!''

    Ispirato, sin nel titolo, al celebre motto del fisico americano David Mermin, “Zitto e calcola!” (editore Eurilink University Press) è il condensato e insieme lo sviluppo di un corso introduttivo alla meccanica quantistica svolto un paio di anni fa a Biogem dal professore Antonio Ereditato. Nella versione scritta il fisico napoletano non perde mai il suo straordinario smalto divulgativo, anche se, la molto minore interattività del percorso suggerito e l’obbligo di una sintesi stringente, rendono l’opera adatta a ‘studenti’ principianti e curiosi, ma ancora più volenterosi di quelli presenti nell’Aula Magna ‘Emanuele’ dell’Istituto arianese.
    Ereditato parte citando il Premio Nobel Richard Feynman, con il suo proverbiale scetticismo sulla capacità umana di comprensione della meccanica quantistica, ma, più che per ‘mettere le mani avanti’, lo fa per comunicare da subito al lettore lo stupore che una simile rivoluzione scientifica suscita continuamente in un fisico di lungo corso come lui. Ecco quindi emergere una prima, simpatica contraddizione tra lo scienziato che nega alla meraviglia lo status di fine della ricerca, riservato ai poeti, secondo la celebre e richiamata citazione di Giambattista Marino, e il suo malcelato approccio di 'rapito stupore' per un tema di indicibile fascino. Si tratta, comunque, di un’occasionale debolezza, riscattata da una disamina, scrupolosa fino al puntiglio, degli ‘elementi di una nuova scienza’, spiegati con molti concetti, ma con pochissima filosofia, e con l’indispensabile ricorso al minimo sindacale di formule matematiche. L’incedere, ed ecco una solo apparente seconda contraddizione, è invece, compiutamente storicistico. Uno dei valori aggiunti del libro, calcoli a parte, è infatti la capacità del professore Ereditato di collocare storicamente la meccanica quantistica, a valle di due precedenti e ancora valide rivoluzioni scientifiche, quella galileiana-newtoniana-maxwelliana e quella einsteiniana. Magistrale appare, inoltre, la capacità di far comprendere al lettore-alunno i punti di contatto tra il vecchio e il nuovo e, soprattutto, le pieghe e gli interstizi nei quali si è inserita in maniera travolgente la nuova fisica dei quanti. Una teoria che Ereditato immediatamente promuove come l’unica in grado di spiegare il mondo sub-atomico, sempre più alla base della fisica nell’ultimo secolo. A questo dato concettuale il professore arriva attraverso una puntuale ricostruzione storica del fenomeno, utilissima al profano per mettere ordine in una materia spesso solo ‘masticata’. L’opera diventa quindi una cavalcata lungo alcuni decenni, cruciali per la fisica, dai primi, incerti pronunciamenti del ‘fondatore’ Max Planck, conservatore e timorato di Dio, quasi frenato nel suo percorso e spaventato dalle sue stesse intuizioni, all’accettazione parziale di un ammirato, ma altrettanto terrorizzato Albert Einstein. Lo scienziato simbolo del Novecento morirà convinto erroneamente di aver arginato gli sviluppi più ‘estremi’ della teoria dei quanti, ma la palma della vittoria toccherà a Niels Bohr, suo interlocutore-rivale e capostipite della mitica scuola di Copenaghen, fucina dei più grandi fisici quantistici del mondo.
    In generale, quest’ultimo lavoro del professore Ereditato dà il meglio di sé quando riesce ad abbracciare, in pagine memorabili, l’incedere storico della nuova scienza, nel passaggio dalla vecchia teoria dei quanti alla vera e propria meccanica quantistica, offrendo una panoramica, a volo d'uccello, della scienza dell’atomo, con tutto il suo fascino moderno. Chi l’ha detto, sembra sfidarci Ereditato, che quello in corso è il secolo della biologia? Geni, molecole o enzimi si potranno studiare al meglio solo grazie alla meccanica quantistica. Ed ecco che il secolo della biologia non può che diventare il periodo di nascita e sviluppo della biologia informatico-quantistica. O almeno, questo può pensare un lettore, non calcolatore, ma comunque appassionato.
    Un libro, quindi, meraviglioso nel senso etimologico del termine, nonostante i timori di una perdita di controllo da parte del suo autore, tutt’altro che ‘freddo calcolatore’, come imporrebbe il titolo. Al contrario, il professore Ereditato non raramente abbandona i panni dello scienziato ‘asettico’ e si lascia andare a considerazioni sociologiche, come lo stupore consegnato al lettore per l’asimmetria tra la ‘meravigliosa’ comunità scientifica dei primi decenni del Novecento e la malata società civile contemporanea, incubatrice di tirannie, totalitarismi, razzismi ed immani tragedie belliche. Un approccio che appare un po' ingenuamente fazioso, se consideriamo, a tacer d’altro, l’attivismo di molti scienziati di fama nella stagione nucleare (e un film favorito per gli Oscar 2024 ne dà ampiamente conto). Siamo quindi al cospetto della magnifica utopia di uno scienziato, innamorato della sua materia di studio e dei suoi protagonisti-eroi.
    A questo proposito, verrebbe da chiedere al professore Ereditato se le meraviglie dell’infinitamente piccolo mondo subatomico siano state in grado di eguagliare, nel suo cuore, i palpiti emotivi procuratigli dalle immensità del cosmo, studiate per gran parte della carriera. A noi sembra proprio di sì, e, per questo, ci spingiamo a chiedergli un bis, magari per comprendere fino in fondo il contributo della meccanica quantistica alla straordinaria rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e, perché no, per proiettarci verso quell’intelligenza artificiale che è già tra noi, ma, probabilmente, ancora ad uno stadio fetale della sua evoluzione.

     

    Ettore Zecchino

    Le impronte del signor Neanderthal

    La morte di tanti ammalati di COVID-19 ha direttamente a che fare con un particolare ‘salto di specie’, avvenuto circa 50mila anni fa, quando la preistoria registrò la prima unione di noi Sapiens con i Neanderthal. Da quel momento, infatti, tra le caratteristiche del nostro DNA è emersa la predisposizione a sviluppare una forma grave di malattia da coronavirus. E, considerando la permanente presenza di geni neandertaliani dall’1% fino ad oltre il 3% dei patrimoni genetici di noi euroasiatici degli anni Duemila, si spiega una certa nostra vulnerabilità al COVID 19, per motivi ‘simmetrici’ molto meno registrata nelle popolazioni africane.
    La recente scoperta è alla base di ‘Le impronte di Neanderthal. Come la scienza ricostruisce il passato e disegna il futuro’, del professore Giuseppe Remuzzi (editore Solferino), che, da bergamasco doc, deve essere rimasto particolarmente colpito da questo studio, fino ad elevarlo a titolo di una delle sue ultime opere di alta divulgazione scientifica. Certo – precisa più volte Remuzzi - l’eredità di questo incontro è molto più complessa e articolata e include vantaggi e svantaggi, più o meno compensati e di gran lunga più importanti della sola vicenda virale, ma, in questo caso, il richiamo all’attualità è particolarmente forte. Tale antico rapporto può essere stato occasionato da puro istinto ferino o da curiosità compiutamente ed ‘evolutamente’ umana, ma, in ogni caso, per Remuzzi, ha avuto a che fare con la genetica. Proprio il DNA può dirsi, infatti, il vero protagonista del libro, capace, come dimostra l’autore, di traghettare la vita verso sentieri talvolta impervi o apparentemente impenetrabili, ma sempre razionali.
    L’opera, scritta in piena pandemia, ha il coraggio di non prescindere dal COVID-19, destinatario di pagine che si apprezzano ancora di più oggi per lucidità e lungimiranza, ma mai se ne fa schiacciare, portando il lettore non specializzato su e giù tra le varie primizie della ricerca, non solo genetica, offrendo spiegazioni e risposte alle curiosità più varie, da quelle strettamente cliniche, a quelle sociali e storiche. Si parla, ad esempio, di geni o meccanismi neuronali che predispongono all’aggressività, all’onestà, alla curiosità, alla creatività, all’intelligenza, alla socievolezza, naturalmente all’amore. Ma anche della sorprendente forza del sesso debole o dell’universale capacità umana di riconoscere ‘fisiognomicamente’ un ricco, fino all’antico dibattito tra predeterminazione e libero arbitrio. Il tutto, partendo da un’analisi sulle origini della vita e sulla sua eventuale riproducibilità, tema dei temi per le scienze biologiche.
    L’approccio non è mai deterministico, e infatti, a ben vedere, sembra portare a un trionfo dell’epigenetica, branca della scienza sempre più in auge, fondata sull’analisi dell’interazione tra geni e ambiente. Un collegamento considerato ormai cruciale e che rafforza la missione dello scienziato-divulgatore Remuzzi, laicamente in fertile dialogo con il Papa Francesco dell’Enciclica ‘Laudato sì’, citatissima nel libro e, per certi versi, considerata quasi alla stregua di una via comune da seguire. Con ‘Le impronte di Neanderthal’, d’altra parte, il professore Remuzzi, apparentemente immerso nella stringente attualità delle ricerche più innovative e proiettato, gioco forza, verso il futuro prossimo delle loro applicazioni, non rinuncia, in realtà, a mostrarci come la scienza sia in grado di ricostruire il passato. E lo fa anche in senso strettamente storico, spiegandoci che le scienze naturali offrono costantemente all’archeologia e all’antropologia nuove, formidabili, lenti per osservare vicende altrimenti immerse nel buio. Statuendo, ad esempio, l’inesistenza di un’etnia celtica. O spiegando che è stato l’uomo cacciatore a ‘rimpicciolire i grandi mammiferi’.
    La testardaggine dei numeri, talvolta foriera di non buone prospettive in vari campi della vita umana, a partire dalle implacabili proiezioni sul riscaldamento globale e sugli squilibri demografici in corso, non fa tuttavia perdere al professore Remuzzi l’ottimismo tipico dello scienziato, nonostante il bellissimo brano citato di un Galileo deluso dalla sconfitta del ‘fondato ragionamento’, a vantaggio delle ‘inveterate posizioni’.

    L’umanità, sembra proporre l’autore, deve sempre più aprirsi alla scienza e alle opportunità e conoscenze che essa sa offrire, in modo da scongiurare, o almeno temperare i suoi stessi, non pochi ‘effetti collaterali’, pur sempre in agguato. E deve farlo in un’ottica leopardiana rovesciata, aiutando la Natura (sive DNA?) a perpetuare nel miglior modo possibile la nostra specie. L’immortalità, ma anche il compassionevole surrogato di una super-longevità di noi singoli uomini, è infatti incompatibile con le leggi della genetica che, imperiose, ci governano da sempre.

     

    Ettore Zecchino

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