La ricerca a tavola

    Vino e società

    Vino e società

    Originario probabilmente dell’area caucasica, il vino è certamente la bevanda che più di ogni altra ha accompagnato la crescita della civiltà occidentale, soprattutto mediterranea, sin dalle sue origini. Se ne parla nell’epopea di Gilgamesh, campeggia nelle feste sacre egiziane in onore del dio Osiride, è parte integrante della cultura persiana, ma connota fortemente l’intera civiltà greco-romana ed ebraico-cristiana. Il primo a piantare la vigna fu, infatti, secondo il racconto biblico della Genesi, il patriarca Noè dopo il diluvio, mentre in Grecia protagonista è Dioniso (non casualmente in rapporto diretto anche con la nascita del teatro).

    La sua origine è quindi mitologico-religiosa, e questa caratteristica lo proietterà subito in una dimensione non puramente alimentare, e, comunque, sempre fortemente ambivalente. Nei Salmi, come nell’Ecclesiaste, sono molti i riferimenti al valore simbolico e sacrale di una bevanda, capace di stimolare la convivialità e di allietare gli animi. Sempre nell’Antico Testamento, in Isaia, è invece duro il richiamo a non abusarne perché, come ammonisce poi anche il libro del Siracide ''occorre non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina''.

    Il vino, guida verso una dimensione altra e alta della conoscenza, legata a qualche forma di illuminazione sulle più profonde dimensioni dell’essere, accompagna, invece, buona parte del pensiero greco-classico, attraversato da guizzi dionisiaci non meno che da costanti apollinee. Stupisce non poco, ad esempio, il suo deciso respingimento da parte del travisato Epicuro, alla ricerca di una felicità ben più sobria e profonda di quella offerta da bevute e libagioni. Simmetricamente, sarà Platone, sulla scia dei pitagorici, e, soprattutto, del suo maestro Socrate, a legare gli effetti del vino alla possibilità di nuove conoscenze, in quella dimensione così peculiarmente ‘ideale’, alla base del pensiero filosofico occidentale. Un approccio, quello platonico, subito ‘smitizzato’ dal suo grande allievo Aristotele, incline ad assegnare al vino una valenza sociale e ad affrancarlo quindi da ostracismi e divieti (erano anni in cui nascevano i primi vini di qualità), ma, al tempo stesso, pronto, modernamente, a considerare come esclusivamente negativi gli effetti dell’ebbrezza alcolica.

    Nel mondo romano il vino, spesso tagliato, come quello greco, con acqua e molte altre sostanze, diventa quello che oggi definiremmo un prodotto di largo consumo, decisamente alieno da sofisticate interpretazioni filosofiche, ma lontanissimo, per gusto, dalla bevanda attuale. Il grande Orazio potrà quindi, in coerenza con il suo marchio poetico del ‘’carpe diem’’, inneggiare in vario modo al vino, definendosi erroneamente un ‘’porco del gregge di Epicuro’’. E chissà quale 'etichetta' ordinò nella sua probabile sosta a Trevico, in una locanda a pochi chilometri dalla sede di Biogem! Più sobriamente, l’epicureo Seneca consegnerà alla storia la sua competenza enologica con pregevoli annotazioni scritte sull’attenta cura delle sue vigne.
    E poi ecco il Falerno, il Retico e le altre mitiche ‘denominazioni controllate’ dell’antichità romana.

    Un’altra rivoluzione, probabilmente decisiva, sta per scuotere il mondo del vino. L’avvento del Cristianesimo conferma infatti una posizione di tale favore alla nostra bevanda, da garantirgli, pur tra alti e bassi, la sopravvivenza fino ai giorni nostri. Sarà infatti l’apparizione di nuove giare di vino nelle altrimenti anonime nozze di Cana, il primo miracolo di Gesù registrato dai Vangeli. Una confidenza, quella del Cristo, con il vino, serenamente descritta anche in altri passi della scrittura, fino all’apoteosi dell’Ultima Cena. Da questo momento in poi si ritorna, sia pur in un senso puramente metaforico, a una dimensione sacra del vino, non più ‘nettare degli dei’, ma terrena rappresentazione del lato più umano, e, quindi, più sacrificale del Cristo. Una valenza, questa sacramentale, che porterà, dopo la terribile crisi conseguente alla fine dell’ Impero Romano, molti monasteri a ‘salvare’ il vino, come tanti altri prodotti dell’ingegno umano. Traghettato in una nuova era da certosini, benedettini, cistercensi, il vino, ormai riconoscibile, nelle sue caratteristiche principali come un avo di quello attuale, è pronto al rilancio dell’età rinascimentale prima, e moderna poi, riuscendo anche a mettere le prime radici nei nuovi mondi via via scoperti. Radici che secoli dopo salveranno i vigneti europei dalla devastazione della fillossera.

    Con l’età moderna il vino si biforca da un lato in una bevanda popolare, di modesto pregio e qualità, e dall’altro in un prodotto ricercato e studiato, capace, in Francia soprattutto, di assumere caratteristiche di raffinatezza e ‘glamour’, e, al tempo stesso, di alimentare, intorno a se, una continua ricerca scientifica. Il resto è storia recente, nel senso che tra Seicento e Settecento, compaiono sulla scena, soprattutto oltralpe, aziende enologiche moderne, in alcuni casi arrivate fino a noi. Certo, dal mitico abate Pierre Perignon e dalla sua incerta invenzione, fino a noi, di vino nei tini e nelle botti ne è scorso parecchio, ma molti dei progressi registrati sono di natura puramente tecnologica.

    Persa quasi del tutto l’originaria dimensione sacrale o almeno simbolica, il vino la mantiene spesso solo nell’arte, dove vengono evocati i miti classici di Dioniso-Bacco. Come nella rinascimentale scultura del Bacco di Michelangelo, o come in una sua rivisitazione pittorica del Caravaggio, passando attraverso opere paesaggistiche e ritratti di bevitori. Tra questi, un giovane, che può ingannevolmente far pensare a un proto sommelier, in un non notissimo quadro di Annibale Carracci. Primo sommelier più o meno accreditato della storia, fu invece, qualche anno prima, il celebre Sante Lancerio, in servizio presso il papa Paolo III.

    Non sono, tuttavia, solo le arti figurative a interessarsi al vino. Contribuiscono infatti alla sua diffusione poeti e romanzieri, filosofi, intellettuali e artisti di ogni genere. Dal Goldoni, nella sua ‘Locandiera’, a Mozart (o meglio, Lorenzo Da Ponte) che nel ‘Don Giovanni’ cita ''l’eccellente marzemino''. Il vino scuote anche personalità insospettabili, e così se qualcuno può dare per scontata la citazione di Rabelais e del suo Gargantua, stupiscono non poco le varie riflessioni sul tema di Giacomo Leopardi, deciso a decantarne la valenza intimamente e non banalmente consolatoria. Quella valenza, pur sempre ambigua, secoli prima ben scolpita da William Shakespeare che, in tutto un altro senso, guarda al vino come a un ''perfido seduttore, che suscita il desiderio, ma ne ostacola l’attuazione’’.

    Anche la politica si è sempre interessata al vino, a tutte le latitudini, dallo statunitense Thomas Jefferson, prima che da presidente, da Ambasciatore a Parigi, fino ai nostri Cavour e Ricasoli, fondamentali per lo sviluppo delle Langhe l’uno, del Chianti l’altro.

    Il vino vive infatti nella dimensione del ‘terroir’, intraducibile ma comprensibilissimo termine francese, che ne evidenzia più di ogni altro il suo legame indissolubile con il clima, l’esposizione, il terreno, la cultura, le tradizioni di una ben precisa realtà e solo di quella. E questo, diciamo la verità, a volte anche a scapito della sostanza delle cose. Quante volte espertissimi sommelier hanno alla cieca confuso vini mediocri con eccelsi, vini di una regione con quelli di un’altra, lontanissima. Non siamo dalle parti di una scienza esatta, ma di una raffinata suggestione, creata dal sudore dell’uomo, ma anche dal suo ingegno. Altro che prodotto naturale. Non vi è nulla di più fuorviante in questa definizione. La vite non è nata per dare frutto liquido, e, convertita nei millenni a questo fine, non avrebbe comunque potuto renderlo gradevole.
    Il vino è quindi il risultato di un grande lavoro tecnico-scientifico, ma è anche il frutto di una complessa narrazione. Forse un giorno il difficile pinot nero sarà domato lontano dalla sua Borgogna o dai suoi altri terreni di elezione, persino in un laboratorio metropolitano sotto casa. Forse la muffa nobile di un Sauternes prescinderà dai terreni e dai climi bordolesi, ma per un vero appassionato saranno giorni tristi, e, chissà, da rimuovere a oltranza. Avviene già più di quanto si è disposti a credere, nelle tante alchimie in cantina e nelle furbizie del marketing, ma sempre al confine di quella magnifica illusione che non può essere mai preclusa all’appassionato, disposto a non bere mai nella vita, quel pregiatissimo e costosissimo prodotto, ma incapace di percepirlo snaturato.

    D’altra parte, con buona pace di chi diceva che ''la vita è troppo breve per bere vini mediocri'' (frase attribuita a Goethe), il nettare di Bacco è in realtà un prodotto di lusso tra i più consolidati, e, quindi, nelle sue espressioni eccelse, per di più 'gonfiato' spesso dal marketing, è del tutto precluso alla stragrande maggioranza degli appassionati.

    Ciononostante, per l’appassionato il vino è uno stile di vita, e, spesso il sole delle sue scelte eno-gastronomiche. Sarà un caso che la parola eno è la prima nel vocabolo composto, oggi tanto in voga? A ogni tipo di vino i suoi alimenti, o, come detto, viceversa. Anche il più ‘elastico’ degli enofili non berrà mai un barolo su una spigola al sale. Il vino è infatti gioco di rimandi ed educazione al gusto, è affinamento dei sensi e raffinata gioia del palato. Per questo, il nostro sarà sempre, malinconicamente, un ‘Pranzo di Babette’, e il vino accompagnerà quasi tutti i futuri protagonisti di questa rubrica.

     

    Ettore Zecchino

     


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