Celebre massima del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, utilizzata per la prima volta nel saggio ‘Scienza naturale e rivoluzione’, del 1850, è assurta a rango di sottotitolo di un’altra opera, ‘Il segreto del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia’, concepita dodici anni dopo, come una sua più profonda e dotta interpretazione. Croce e delizia per Feuerbach, già in vita identificato con essa e dai posteri spesso limitato a questa, ha indubbiamente la capacità di racchiudere in se stessa un intero mondo, ma al tempo stesso di ampliare all’infinito le sue possibilità interpretative. Capacità rafforzate dalla sua potente forza effettistica nell’ambito strettamente linguistico, se consideriamo la notevole assonanza, in tedesco, dei verbi mangiare ed essere. O, a maggior ragione, la completa identità della terza persona singolare maschile dei due stessi verbi (est), nel latino classico.
Da simbolo di un materialismo quasi crudo e greve presso la gran parte dei suoi contemporanei, questa frase si è gradualmente sublimata nella lettura dei posteri, propensi a interpretarla come una mirabile, sia pure provocatoria sintesi di un sistema di pensiero raffinato e complesso. Quello del suo autore, uno dei grandi padri dell’ateismo moderno, nel filone tracciato, alle origini, da Democrito ed Epicuro. Al tempo stesso un torrente di fuoco (la traduzione esatta del nome Feuerbach), attraverso il quale tutti, secondo il grande teologo protestante Karl Barth, siamo costretti a passare. Scoprendo, fra l’altro, che la sua visione della persona può dirsi più ‘cristiana’ di quella di Tommaso D’Aquino, come scritto da Joseph Ratzinger, non ancora papa, sancendo autorevolmente l’attitudine del cristianesimo a unire corpo e spirito. Come nel pasto eucaristico, ben lontano dagli indiretti simbolismi di altre religioni.
Per Feuerbach, quindi, l’essere si identifica con il mangiare, fra l’altro anche nell’accezione respiratoria del consumare ossigeno. Il concetto del mangiare addirittura precede quello dell’essere, apparendo una nozione di gran lunga meno astratta della seconda, almeno per i primi viventi. Un’identificazione applicabile anche agli dei, ‘riconoscibili’ come consumatori di nettare e ambrosia, cibi immortali per eccellenza, e utilizzabile anche in negativo, con riferimento ai divieti alimentari, di natura soprattutto religiosa, caratterizzanti varie etnie. D’altra parte, fa notare lo stesso Feuerbach, in Omero e, in generale nella civiltà greca antica, i popoli venivano minuziosamente appellati in relazione alle loro principali abitudini alimentari, come attestano lunghi e celebri elenchi di questo tipo nell’Iliade e nell’Odissea.
Non alla sola, pur solidissima cultura filologica, viene tuttavia ancorato il concetto in esame, che risente fortemente della temperie culturale degli anni in cui fu espresso, spingendo, non a caso, Feuerbach, a recensire entusiasticamente ‘La dottrina degli alimenti. Per il popolo’, rivoluzionario testo del fisiologo e medico Jacob Moleshott, suo grande ammiratore e quasi allievo. Una recensione intitolata ‘Scienza naturale e rivoluzione’, nella quale, come detto, compare per la prima volta la celebre frase. In realtà, espressioni molto simili possono farsi risalire indietro negli anni, fino al celebre teologo protestante Friedrich Gedike, che la utilizzò nel 1784, o al notissimo ‘Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei’, del gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin (1824). Fu tuttavia Feuerbach a imprimerle un’efficacia letteraria e una profondità interpretativa a tutt’oggi insuperate, grazie anche alla forte valenza ‘sociale’, di cui tale frase è stata da subito ammantata. Echeggiando e rilanciando il testo di Moleschott, Feuerbach si preoccupa infatti di trarre, da questa premessa semantica, importanti e concreti aiuti per il popolo tedesco, invitato ad arricchire la propria dieta, fondata, allora più di oggi, sul consumo di patate, ‘che fanno un sangue debole’. Così come per gli irlandesi, funestati dalla peronospora, ma, soprattutto, alimentati dal ‘fiacco sangue di patate’, contrapposte alle nutrienti mandrie, consumate dai loro eterni nemici inglesi. Feuerbach anti-vegetariano? Non proprio, visto che più avanti nel testo ci si imbatte in un ‘moderno’ elogio dei legumi, considerati ricchi di proteine (allora si chiamavano albumine) molto più delle solite patate.
La questione è tutta ematica, dal momento che gli alimenti vengono trasformati in sangue. Altro che spirito, niente nell’uomo può prescindere dalla materia, in entrata, come in uscita, e, se si vuole migliorare la condizione di un popolo, bisogna indurlo ad alimentarsi meglio, piuttosto che a pregare meglio. Se lo stomaco non è pieno a sufficienza, del resto, non è possibile nessuna attività umana, a partire dal cartesiano cogitare, pur creduto alla base della nostra essenza-esistenza.
Il sangue, tuttavia, è anche quello dei sacrifici, da sempre offerti agli dei, in forme dirette o simboliche, fino alla ‘perfezione’ dell’eucaristia cattolica, della quale Feuerbach mette in luce anche la forte ‘valenza comunitaria’.
L’uomo è quindi ciò che mangia in comunione, ma è anche ciò che offre agli dei, entità non bisognose di cibo, ma inclini al rapporto con l’umano, sotto forma di banchetti olimpici e olocausti biblici, fino alla transustanziazione cristiana. Ecco allora che l’identificazione con il cibo perde qualsiasi suggestione puramente biologica, e, lontanissima da possibili accostamenti gastronomici o nutraceutici contemporanei, diventa una cifra dolente dell’evoluzione umana, e occidentale in particolare. Quella crescita che, fa notare lo stesso Feuerbach, si impenna con Copernico e con tutte le scoperte scientifiche successive. Tra queste, un occhio di riguardo spetta alle scienze naturali, ingenuamente non sottoposte a censura dall’occhiuto regime prussiano, incapace di coglierne la straordinaria forza destabilizzante. Sommovimenti decisivi, ma non ancora fatti propri dall’umanità, appesantita da una visione, ai suoi tempi, di matrice fortemente idealista.
Siamo lontani da Freud, ma tutta psicoanalitica è poi l’interpretazione feuerbachiana del sacrificio come sbocco diretto del senso di colpa dell’uomo verso la natura, per la distruzione sottesa all’atto del mangiare. Nutrirsi, sembra affermare Feuerbach nel secondo dei due saggi in esame, è anche un po’ amarsi, mordersi di baci, come vorrebbe qualsiasi coppia appassionata. O come, più istintivamente, ma ancora più naturalmente, fa il neonato quando succhia il latte materno, sostanza vitale non meno paradigmatica del sangue.
D’altra parte, per Feuerbach, il mangiare umano, pur non guidato interamente dall’istinto, come quello animale, certamente è connotato dal bisogno. Non così per gli dei, che condividono con gioia il pasto degli uomini, ma in una logica mai necessitata, bensì di puro ed esclusivo godimento. Ancora una volta l’uomo è ciò che mangia e i cibi mortali non somiglieranno mai al nettare e all’ambrosia degli dei.
Almeno, fino a quando un nuovo Feuerbach idealizzerà altre proiezioni di sé nell’immensità dello spazio-tempo, bergsonianamente inteso come ‘’una macchina che produce degli dei’’.
Ettore Zecchino