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    Giuseppe Raucci

    Giuseppe Raucci

    Attualmente a capo del Laboratorio di Bioanalitica di Biogem, il dottore Giuseppe Raucci vanta una lunghissima esperienza presso il gruppo farmaceutico Menarini, inframezzata da percorsi di specializzazione in Italia e all’estero. Negli Stati Uniti, in particolare, ha avuto modo di approfondire le sue conoscenze ai più alti livelli.

    Dottore, il suo rapporto con Biogem si materializza in una fase avanzata della sua carriera. Da cosa ha avuto origine?

    Tutto è partito da una telefonata nel gennaio del 2019. In quel periodo avevo appena raccolto i risultati di una nuova strategia analitica per studi di farmacocinetica su anticorpi monoclonali e molecole derivate. In Biogem ho visto la possibilità di svolgere questa attività in un contesto con un superiore potenziale di sviluppo e questo mi ha fatto decidere per il cambio. Credo di aver visto giusto.

    Può spiegare a tutti in maniera semplice di cosa si occupa la farmacocinetica e cosa vuol dire ADME?

    Il nostro laboratorio si occupa di analisi su molecole di origine biologica e su farmaci. Questi ultimi vengono analizzati sia in forma pura sia in campioni di sangue (plasma) di animali a cui sono stati somministrati per una sperimentazione.

    La farmacocinetica di un farmaco è lo studio analitico che ne stabilisce il livello quantitativo nel plasma a partire dal momento della somministrazione fino a quando sparisce dal circolo sanguigno.

    Una volta somministrato, il farmaco si distribuisce nei tessuti e l’analisi quantitativa in questi distretti è la base per gli studi di biodistribuzione. Queste due fasi appena citate costituiscono l’assorbimento (fase “A”).

    Durante tutto questo processo, poi, il farmaco viene a contatto con una serie di enzimi che operano su di esso una serie di trasformazioni chimiche orientate alla sua eliminazione dall’organismo (in inglese, “drug metabolism”, da cui l’identificazione con la sigla “DM”).

    Infine, il farmaco ed i suoi prodotti di trasformazione (metaboliti) vengono allontanati dall’organismo attraverso specifiche vie di eliminazione (fase “E”).

    L’insieme di queste fasi costituisce gli studi ADME.

    Ci può parlare dei progetti attualmente in corso ed eventualmente di quelli in programma a Biogem?

    Stiamo completando lo studio su una molecola di una società italo-svizzera, di cui è apparsa la prima sperimentazione in vitro in una pubblicazione dello scorso anno sul bollettino dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, PNAS. La sua applicazione è nella terapia del cancro, e, alla luce dei risultati estremamente promettenti, sta procedendo velocemente verso la sperimentazione clinica.

    La nostra soddisfazione, oltre che nel far parte di uno studio importante, sta nell’essere riusciti a sviluppare della buona metodologia di spettrometria di massa ad alta risoluzione, con tutti i requisiti richiesti dalle Buone Pratiche di Laboratorio (BPL), oppure “Good Laboratory Practices” (GLP), secondo la definizione anglosassone.

    Le idee per il futuro sono diverse, ma la prospettiva più immediata è quella di estendere l’applicazione delle metodologie appena citate a molecole di complessità analoga o superiore, come ad esempio gli anticorpi monoclonali.

     

    Quanto deve alla Menarini nella sua evoluzione scientifica?

    Menarini è il posto dove ho costruito una bella fetta delle competenze scientifiche che ho portato in Biogem. Posso quindi dire che a Menarini devo tanto.


    Avverte come un peso la collocazione geografica di Biogem?

    La collocazione geografica di Biogem si potrebbe definire “periferica”, ma preferisco di gran lunga definirla “decentrata”. Non è un gioco di parole, perché il concetto di perifericità ha sempre meno senso dal punto di vista geografico, e, per quello che mi riguarda, la collocazione del nostro Istituto di sicuro non mi limita. In assoluto, sarei più preoccupato di una perifericità culturale o scientifica, ma non mi sembra un problema di Biogem.

    In questi giorni Silvio Garattini, tra le massime autorità patrie nel mondo della farmacologia, in un’intervista al quotidiano ‘Avvenire’, ha messo in guardia dall’utilizzo massiccio di integratori vitaminici, generalmente dalla dubbia efficacia.  
    Ritiene giusto sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema come questo? Come mai la gente ha tanta fiducia negli integratori e poca nei farmaci?

    Credo che queste due domande abbiano una radice comune e che abbiano un ruolo centrale in questa intervista.

    Penso che tutto abbia origine dalla tendenza dell’uomo del nostro tempo a confutare in maniera radicale, viscerale, dei fatti la cui oggettività era considerata lampante fino a poco tempo fa. Faccio l’esempio dei vaccini, una classe di farmaci che ha cambiato radicalmente gli esiti nefasti di alcuni autentici flagelli della specie umana. Nonostante ciò, oggi abbiamo i no vax.

    Ritengo che ciò derivi da una fragilità umana, culturale, dell’uomo contemporaneo, di fronte a cui non c’è evidenza scientifica che tenga.

    Si tratta di una “patologia”, la cui terapia è la ricerca di una conoscenza vera. Su questo aspetto credo che il Festival delle Due Culture abbia un’importanza centrale, ma si tratta di un processo che ha tempi lunghi (come lunghi tempi di incubazione ha avuto questa “patologia degenerativa“, in atto in maniera esplicita da almeno 30 anni) e non ha scorciatoie.


    Quale rapporto può esserci tra la ‘sua’ bioanalitica e la nutraceutica, ultimamente rafforzata a Biogem?

    Il rapporto tra bioanalitica e nutraceutica mi sembra abbastanza stretto, nel senso che il Laboratorio di Bioanalitica è ben disposto ed abbastanza attrezzato dal punto di vista culturale, ma anche scientifico e strumentale, a supportare il settore della nutraceutica.

     

    I vaccini innovativi utilizzati fino ad ora contro il COVID-19 si possono definire sicuri?
    Premesso che la sicurezza al 100% non esiste, la mia risposta è si. Aggiungo che lo sono stati sin dall’inizio, almeno in Occidente. In Europa, le autorità di controllo hanno infatti soltanto agevolato le tempistiche di sperimentazione ed i percorsi di autorizzazione, ma non hanno creato percorsi alternativi, scorciatoie non sperimentate e potenzialmente pericolose per la sicurezza.

     

    Il sistema di certificazione dei farmaci in Italia rientra negli standard occidentali più alti per qualità e affidabilità?

    Il nostro sistema di certificazione dei farmaci è completamente allineato con quello del resto dell’Unione Europea, a tutti i livelli, inclusi, naturalmente, gli standards di qualità ed affidabilità (oppure, per dirla con le tre parole chiave delle agenzie di controllo: qualità, sicurezza, efficacia).

     

    Secondo molti, l’industria farmaceutica italiana non si è più ripresa dal crollo di fine millennio. Intravede segnali di ripresa?

    Anche secondo me è andata così e non mi sembra di vedere grandi segnali di ripresa.

    Recentemente ho seguito le vicende di due società italiane che si occupano di prodotti innovativi ed hanno lavorato allo sviluppo di un vaccino per COVID-19: IRBM e Reithera.

    A grandi linee, IRBM ha sfruttato le sue grandi competenze sui vaccini adenovirali e grazie a queste ha dato un contributo determinante ad Astra-Zeneca e allo Jenner Institute di Oxford per la produzione di un ottimo vaccino.

    Reithera aveva invece un piano di sviluppo più dipendente dal settore pubblico italiano, crollato in seguito alle difficoltà di sperimentazione e per il quasi improvviso venire meno dell’apporto, anche finanziario, del settore pubblico.

    Rispetto a scenari di questo tipo, ho qualche difficoltà ad immaginare una ripresa del settore e a fare affidamento sul pubblico: oggi magari  mi sostiene, ma domani potrebbe cambiare idea in maniera poco prevedibile.

    A che punto siamo nel percorso verso i farmaci ‘personalizzati’?
    Sono già tra noi e l’esempio più vicino è quello della terapia con cellule CAR-T, sviluppato, tra gli altri, anche all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. E’ un tipo di terapia effettivamente rivoluzionario, che permette remissioni inimmaginabili in altra maniera. Ci tengo anche a dire che il Centro di Saggio ha una linea di collaborazione con il Bambin Gesù esattamente a supporto di questo grande progetto che, oltre ad essere di sviluppo terapeutico, è anche di sviluppo industriale.

    Quali passioni intellettuali e non coltiva l’uomo Raucci al di fuori del proprio laboratorio?

    Devo dire che l’uomo Raucci nell’ultimo periodo ha avuto qualche difficoltà a coltivare le sue passioni…. comunque, ce ne sono almeno due.

    Una è ascoltare musica, in particolare il rock della fine degli anni ’60, nel periodo dei movimenti giovanili, che si espresse con la “Summer of love” di San Francisco nel 1967 e con il festival di Woodstock qualche anno dopo. Ma c’è poi anche un inevitabile interesse per la musica classica.

    L’altra passione è la fotografia, nata verso la fine del 1986 negli U.S.A, principalmente per mostrare ai miei cari in Italia la mia quotidianità. Poi è diventata una modalità per imparare a guardare ed analizzare la realtà per come mi si pone davanti agli occhi.

    Oggi la cosa che mi piace di più è la “street photography”, il portare la macchina fotografica tra la gente e scattare.

    Si sente di consigliare qualcosa al direttore scientifico di Biogem?

    L’incremento progressivo dell’afflusso di commesse verso il Laboratorio di Bioanalitica sta mettendo in evidenza alcune differenze significative tra la ricerca applicata e la ricerca di base.
    Valorizzare queste differenze in un’ottica di complementarità credo che migliorerà l’esperienza di Biogem nel suo intero.
    E’ un punto che mi è già capitato di affrontare con il professore Capasso, di cui apprezzo molto l’apertura nei nostri confronti.

     

    Ettore Zecchino


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