Professore emerito dell’Università di Napoli Federico II, della cui Facoltà di Scienze Biotecnologiche è stato anche Preside dal 2006 al 2010, Gennaro Marino è tra i massimi esperti nazionali nel campo della Proteomica. Socio della prestigiosa Accademia Nazionale delle Scienze, e membro dell’Accademia dei Lincei, nel corso della sua lunga carriera è stato anche ‘Visiting Professor’ presso l’Imperial College di Londra, dal 1987 al 2010. Nella capitale britannica ha svolto anche, per un biennio, le funzioni di Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia. Tra i pionieri in Europa negli studi e nelle applicazioni della spettrometria di massa in campo biomolecolare, in questa seconda fase della sua carriera ha visto nascere e fatto crescere l’Area Formazione di Biogem, tra i fiori all’occhiello del centro di ricerca irpino, e occasione permanente di ‘contatti’ con molte tra le più importanti istituzioni scientifiche a livello internazionale.
Professore, quando molti chimici si occupavano di plastiche e materiali, lei ha puntato tutto sulla proteomica?
ll mio percorso formativo è stato alquanto inusuale rispetto alla tradizione chimica degli anni ’60. Frequentavo, sin dagli anni del liceo, la biblioteca dell’USIS (United States Information Service), dove era possibile reperire anche riviste scientifiche e, in particolare, 'Scientific American', la numero uno nell’ambito divulgativo. Dovevo preparare una tesina dell’esame di Chimica Organica II, riguardante la chimica degli aminoacidi, e, sfogliando l’ultimo numero della rivista, incappai in un articolo di Stein e Moore, futuri Nobel nel 1972, di cui conservo ancora gelosamente una copia. Trassi da quell’articolo una tesina che fu molto apprezzata dal futuro relatore della mia tesi di laurea, e nacque così il mio amore per la chimica delle proteine, che ho coltivato per oltre 50 anni e che continuo a coltivare, applicandolo nel campo dei beni culturali. Sono stato il primo laureato in Chimica dell'Università di Napoli a presentare una tesi di laurea sulla purificazione e sulla caratterizzazione di una proteina enzimatica. Per qualche commissario l’argomento era completamente sconosciuto, tanto da chiedere al mio relatore “se questo enzima venisse conservato nello stabulario”. Ovviamente, non avevano idea di cosa fosse un enzima, tantomeno uno stabulario! Insomma, la cultura biochimica di alcuni docenti del corso di laurea in Chimica negli anni '50 non era proprio esaltante. Per mia fortuna, nel giro di qualche anno la scena scientifica della Chimica a Napoli cambierà in modo radicale. Buona parte dei risultati della mia tesi furono poi oggetto di due pubblicazioni sul ‘Biochemical Journal’, a quel tempo una delle riviste internazionali di biochimica più prestigiose.
Il percorso dalla chimica delle proteine degli anni ’60 alla proteomica degli anni ’90 si realizza in seguito all’introduzione, in questo tipo di studi, di una strumentazione di estrema potenza analitica, lo spettrometro di massa. Devo al mio grande e indimenticabile Maestro, Alessandro Ballio, il mio iniziale coinvolgimento nella spettrometria di massa. Ballio, già allievo a Roma, presso l’Istituto Superiore di Sanità, del premio Nobel Ernst B. Chain, nel 1965 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Chimica delle Sostanze Naturali, in un momento in cui un gruppo di giovani e brillantissimi chimici da tutt’Italia rinnovavano completamente gli studi di questa disciplina. Ballio, che tra l’altro aveva scoperto il precursore delle penicilline sintetiche (l’acido 6-ammino pennicilanico), voleva comunque sviluppare a Napoli una linea di ricerca che si occupasse di chimica delle proteine, e mi invogliò a continuare i miei studi. C’è un preciso episodio che cambiò la mia vita scientifica e che vale la pena di ricordare in questo contesto. In quegli anni la spettrometria di massa, dopo essere stata largamente impiegata nella chimica del petrolio, cominciava a rivestire una certa importanza, insieme alla risonanza magnetica nucleare, per la risoluzione di strutture di sostanze naturali a basso peso molecolare. Ballio riuscì ad ottenere un finanziamento dal CNR per dotare l’Università di Napoli di uno degli spettrometri di massa più avanzati allora disponibili sul mercato. Qualche mese dopo mi comunicò di aver saputo da Edgar Lederer, direttore dell’Institut de Chimie des Substances Naturelles del C.N.R.S., che, presso questo istituto, a Gif-sur-Yvette, usando una macchina simile a quella che stava per arrivare a Napoli, avevano ottenuto la sequenza di un peptide. Aggiunse che forse sarebbe stato utile un mio soggiorno presso il laboratorio di Lederer. Non accolsi la notizia con eccessivo entusiasmo e gli feci osservare che i risultati ottenuti a Gif si riferivano alla sequenza di un piccolo peptide microbico, mentre, richiamandomi ai risultati che i miei miti stavano producendo, non c’era dubbio che la sequenza di una proteina con centinaia di amminoacidi si potesse ottenere solo con i metodi chimici che stavo mettendo a punto. Ballio intuì questa mia perplessità e sbloccò le mie esitazioni con un lapidario: «E chi glielo dice che tra dieci anni non sarà possibile sequenziare anche una proteina con lo spettrometro di massa?». In effetti, ci vollero poco più di 15 anni, e questa lezione di grande prospettiva scientifica ha guidato l’insieme delle mie attività di ricerca e didattiche. Da allora il mio gruppo, coniugando lo studio della chimica delle proteine con strumentazioni sempre più aggiornate e sempre più avanzate, costituisce un punto di riferimento, non solo nel nostro Paese, negli studi di proteomica. Abbiamo affrontato e risolto problemi riguardanti la validazione di proteine ricombinanti, la scoperta di nuove varianti dell’emoglobina umana, la messa a punto di metodi per lo studio di modifiche post–traduzionali, la definizione di aspetti strutturali non facilmente affrontabili con altre tecniche chimico–fisiche, etc. Recentemente, abbiamo rivolto la nostra attenzione alla definizione dei materiali di natura proteica, come le proteine del latte, delle uova, delle ossa, usate per fissare, sia nell’imprimitura sia nella rifinitura di affreschi e, soprattutto, di tempere, da parte dei Maestri delle nostre grandi tradizioni pittoriche.
Studiare la chimica delle proteine rappresentava una nicchia culturale, rispetto ad altri percorsi intrapresi nella seconda metà del XX secolo come, per esempio, quella, della chimica dei polimeri, anche in conseguenza dell’assegnazione a Giulio Natta del Premio Nobel nel 1963. Devo dire che altrettanta ostilità riscontrai da parte di alcuni amici biologi molecolari. In particolare, qualcuno di loro mi suggerì di abbandonare questo campo, destinato ad esaurirsi, visto che utilizzando il codice genetico si potevano conoscere le sequenze delle proteine dalle corrispondenti sequenze del DNA molto più facilmente, e più rapidamente si poteva ottenerle. Ignoravano, questi miei amici, che le funzioni delle proteine si esplicano anche grazie alle modifiche che esse subiscono dopo il processo di traduzione. Non a caso, proprio in questo campo abbiamo ottenuto successi significativi.
E poi ancora pioniere nella spettrometria di massa?
Nella risposta precedente ho accennato alla maniera in cui fui coinvolto in questa metodologia sperimentale, che oggi gioca un ruolo chiave non solo nella proteomica, ma anche in un altro campo centrale delle scienze ‘omiche’: la metabolomica. La possibilità di determinare contemporaneamente centinaia di prodotti del metabolismo rappresenta una formidabile e inesauribile fonte di informazioni per lo studio della fisiologia e della patologia cellulare. L’integrazione di tecniche computazionali avanzate come il deep learning con la metabolomica consentirà la modellazione metabolica su scala genomica, ma sarà cruciale nella fenotipizzazione metabolica di cellule patologiche, e nella scoperta dei biomarcatori precoci.
Oggi quali studi possono dirsi di avanguardia nel campo della biochimica?
La Biologia Computazionale e Quantitativa sarà in grado di accelerare le conoscenze sui sistemi di controllo e di regolazione e di fornirci perciò le tante risposte riguardanti l’omeostasi biochimica. In un discorso di prospettiva non posso non accennare al fatto che la proteomica potrà fare a meno della spettrometria di massa. La possibilità di sequenziare le proteine con la metodologia dei nanopori, utilizzata con tanto successo nel sequenziamento del DNA, sta percorrendo in questo momento i primi, incerti passi. Sono tuttavia convinto che nel giro di dieci anni diventerà la tecnica elettiva per lo studio delle proteine. Gli spettrometristi di massa proteomici sono avvisati.
La sua lunga esperienza londinese cosa le ha insegnato?
Sono stato, e forse lo sono ancora, malgrado la Brexit e Boris Johnson, un anglofilo, e la mia formazione scientifica ha fortemente risentito delle mie frequentazioni inglesi. Uno dei miei miti scientifici è stato Frederick (Fred) Sanger e ricordo come uno dei momenti più emozionanti della mia vita, la cena che il mio amico Richard Perham organizzò al St John's College di Cambridge, a cui partecipò anche Fred. L’uomo che aveva ottenuto due Premi Nobel conversava con me con pacatezza, con tranquillità, direi quasi con umiltà, senza l’antipatica spocchia che avevo spesso riscontrato negli incontri con altri insigniti del riconoscimento svedese. Un grande, indimenticabile momento. Il mio errare in terra di Albione prende il via a Manchester e a Liverpool, alla fine degli anni 60, perché in quel momento, in una stretta collaborazione tra università e industria, venivano realizzati i più avanzati spettrometri di massa. Coglievo però le occasioni di convegni e di eventi per visitare quello che era il sancta sanctorum della Scienza in quel momento: l’LMB, al Cavendish Laboratory di Cambridge, dove circolavano decine di Premi Nobel, tra cui lo stesso Sanger, Crick, Perutz, Kendrew, Klug, Milstein, Walker. In una di queste occasioni ebbi occasione di incontrare Howard R. Morris, il vero inventore della proteomica, già prima che venisse battezzata così, nel 1994. Con Howard si stabilì una forte e duratura amicizia, contraddistinta da stima e affetto reciproci. Tra l’altro, il destino volle che proprio Howard nel 1975 fosse chiamato all’Imperial College a ricoprire la cattedra di Biochimica che aveva istituito Boris Chain, il maestro del mio maestro, quando da Roma era tornato a Londra. A partire dal 1975 c’è stato un lungo pellegrinaggio di miei allievi che hanno frequentato i laboratori dell’Imperial College, molti dei quali hanno raggiunto posizioni apicali, non solo nel campo della proteomica. Io stesso ho soggiornato a lungo a Londra, e, anche durante lo svolgimento della mia funzione di consigliere scientifico all’Ambasciata, frequentavo, nel tempo libero, i laboratori, seguendo in parte le tesi di due dottorande, e la piscina dell’Imperial! C’è stato un momento in cui c’erano ben cinque napoletani nel laboratorio di Morris, e molti amici inglesi rimpiangono ancora l’odore del caffè che si espandeva dalla moka espresso al nostro ritorno dal pranzo.
Ci spiega le differenze tra il sistema della ricerca inglese e quello italiano?
Quando ho frequentato l’Inghilterra, non erano ancora arrivati i grossi finanziamenti europei che hanno sostenuto poi la ricerca britannica dal 1990 in poi ( fortemente contraria alla Brexit è stata proprio la comunità di ricercatori). I grandi finanziamenti locali, erogati essenzialmente su progetti dai cinque consigli delle ricerche e da fondazioni private, erano mirati e gestiti con la massima efficienza possibile, con controlli sul posto, in itinere ed ex-post. Ricordo che all’Imperial quando c’erano queste ispezioni, della durata anche di una settimana, si sentiva il terrore correre sul filo. In Italia, invece, come si sa, ci si fida sulla parola.
Quali i difetti e i pregi di entrambi?
Da più di venti anni non frequento regolarmente l’Inghilterra e da più di dieci non sono impegnato nella ricerca attiva. Darei, quindi, una valutazione obsoleta di una situazione che si evolve con elevato dinamismo. Mi sento comunque di dire che i nostri pregi risiedono tutti nell’intelligenza dei nostri giovani ricercatori, nella loro fantasia, nel loro entusiasmo. Purtroppo, queste fantastiche caratteristiche vengono appieno sfruttate solo da sistemi efficienti, come quelli che si ritrovano generalmente all’estero e, in particolar modo, in Inghilterra.
Cosa l’ha spinta ad aprire una nuova fase della sua carriera a Biogem?
Ebbi il piacere di visitare Biogem nel 2009, su sollecitazione dell’amico e collega Mario De Felice, allora Direttore Scientifico, nonché autorevole membro della Facoltà di Scienze Biotecnologiche, di cui ero Preside. Ebbi così l’onore e il privilegio di incontrare personalmente il Presidente Zecchino, la cui opera come Ministro avevo da sempre apprezzato e ammirato. In quella occasione si fissarono le condizioni per stabilire la collaborazione didattica tra la facoltà di Scienze Biotecnologiche e Biogem, ed estendere la convenzione per l’istituzione e l’attivazione del Corso di Laurea Magistrale in ‘Scienze e Tecnologie Genetiche’ anche all’Università di Napoli Federico II. Nel 2010, al momento della mia collocazione in quiescenza, fui molto onorato della proposta che mi fece il Presidente Zecchino di coordinare le attività formative che facevano capo a Biogem e, in particolar modo, quelle del Corso di laurea magistrale. Fui molto felice quando il Presidente accolse la mia proposta di trasformare la metodologia didattica del corso di laurea, integrandola nelle attività di ricerca che si svolgevano a Biogem. Gli studenti, selezionati con una prova di accesso piuttosto impegnativa, avevano l’obbligo di frequentare l’Istituto dalle 9:00 alle 18:00 per cinque giorni alla settimana. Seguivano le lezioni frontali, previste dal piano di studio, ma anche attività di esercitazioni di laboratorio, che erano state progettate ad hoc, grazie alla generosa collaborazione dei ricercatori di Biogem. Nelle poche ore libere da impegni, gli studenti venivano sollecitati a studiare in classe. Si rafforzava, così, lo spirito di gruppo, e si realizzavano percorsi didattici ‘’dal basso verso l’alto’’, che ho sempre ritenuto proficui ed efficaci. Erano, inoltre, tenuti a seguire tutte le attività culturali e scientifiche, a partire dalla splendida manifestazione settembrina delle 2 culture. I risultati sono stati eccezionali. I nostri 160 laureati hanno infatti conseguito il titolo di studio all’interno della durata legale del corso di laurea, e non abbiamo avuto un solo fuori corso. Moltissimi di loro hanno con successo partecipato alle selezioni per l’accesso a scuole di dottorato prestigiose, non solo in Italia, e, successivamente, hanno proseguito la carriera accademica. Tutti affermano l’importanza del periodo formativo trascorso ad Ariano e mettono in evidenza il vissuto in un ambiente di ricerca che ha decisamente facilitato il loro rapido inserimento in ambienti competitivi, come quelli del Karolinska Institute di Stoccolma, dell’Università di Zurigo, dell’Università di Barcellona, della SISSA di Trieste. Questa esperienza si è conclusa nel 2018, perché era nostra intenzione far partire un ambizioso programma didattico che avrebbe coinvolto la Scuola Normale di Pisa, con l’istituzione e l’attivazione di un corso di laurea magistrale in Biologia Quantitativa e Computazionale, anzi in Quantitative and Computational Biology, trattandosi di un corso offerto a una platea internazionale. Una serie di contingenze ha fatto venir meno l’impegno della Scuola Normale, anche se formalmente sottoscritto alla presenza del Capo dello Stato. Siamo convinti della validità di questo progetto, tanto da aver dato l’occasione per l’istituzione di un corso di dottorato dal titolo omonimo, dell’Università di Napoli Federico II, in collaborazione con Biogem. Il presidente Zecchino e io stiamo esplorando varie possibilità per dar luce a questa innovativa proposta formativa, e sono fiducioso che presto si possa addivenire a un coinvolgimento di vari atenei ed istituzioni campane, per una ripartenza, in tempi brevi, del progetto. Come già ho detto sopra, l’intelligenza artificiale rivoluzionerà la biologia, e c’è la necessita di formare figure professionali che integrino le competenze informatiche con quelle biologiche. Proprio come quelle che il corso di laurea che abbiamo in mente propone.
Si sente più ricercatore o formatore?
Le due figure si integrano e si compenetrano. D’altra parte, il mio successo scientifico non è altro che la risultante della bravura, dell’impegno, dell’entusiasmo dei miei allievi. In definitiva, l’accademia ha un senso se si è in grado di creare una scuola, coniugando le capacità di formatore e di ricercatore.
Può farci un bilancio complessivo della lunga stagione irpina?
Un bilancio più che positivo, soprattutto in relazione al successo del modulo didattico che avevamo realizzato. Sul piano personale, devo dire di essermi notevolmente arricchito per la molteplicità di esperienze umane e culturali che lo straordinario ambiente di Biogem, sotto l’eccezionale guida, saggia e visionaria, del Presidente Zecchino, mi ha offerto.
E i progetti futuri?
Cercare di portare a termine l’attivazione del corso di laurea magistrale in Biologia Quantitativa e Computazionale. Ci lavoro ormai da quattro lunghi anni, e sarei felice se potessi salutare, nel settembre 2022, l’inaugurazione di questa nuova, entusiasmante avventura formativa, concludendo così il mio lungo periodo di associazione con Biogem.
Suggerimenti alla Direzione Scientifica?
La direzione scientifica di Biogem ha trovato nel professore Capasso l’esperienza, le competenze, l’entusiasmo di un clinico illustre e di un ricercatore eccellente. L’amico Gianni non ha bisogno di suggerimenti, e d’altra parte, abbiamo sempre concordato nel ritenere centrale, anche per l’attività di ricerca di Biogem, il momento formativo.
Ettore Zecchino