Focus

    Michele Ceccarelli

    Straordinario interprete di messaggi cifrati oscuri ai più, Michele Ceccarelli dirige il Laboratorio di Bioinformatica di Biogem, e, da qualche anno, è vice-direttore scientifico dell’istituto. Si devono a lui, o comunque sono passate attraverso le sue analisi di dati, numerose ricerche condotte a Biogem, nei campi più svariati. Entrato nel celebre elenco del 2% dei ricercatori più citati al mondo, stilato da Plos Biology, ha visto pubblicati molti suoi studi in importanti riviste internazionali di settore, come Nature, Cell, e altre. Il gruppo da lui diretto è prevalentemente impegnato nella ricerca sulla biologia dei sistemi e sulla genomica del cancro.

    Professore Ceccarelli, come si vive circondati da dati scientifici grezzi, da ordinare e far quadrare tra loro?

    In questo periodo di pandemia siamo riusciti a portare avanti molte nostre attività, perchè passiamo la maggior parte del tempo al computer. Grazie all’infrastruttura di calcolo ad alte prestazioni che abbiamo recentemente installato a Biogem, il gruppo che dirigo ha avuto la possibilità di analizzare le sequenze genomiche risultanti dagli esperimenti realizzati a Biogem, ma anche quelle che ci arrivano da diversi altri gruppi di ricerca, in ambito internazionale.

    Quali attitudini considera fondamentali per un bioinformatico?

    Mi piace sottolineare che il nostro gruppo di bioinformatica è molto eterogeneo e interdisciplinare. Abbiamo biologi e biotecnologi, ma anche ingegneri, matematici, e statistici. Quello che stimola in questo ambito è la possibilità di individuare per primi dei segnali nascosti all’interno delle sequenze, e dare un ‘significato’ alle modificazioni che si osservano sia a livello di sequenze di DNA, sia a livello di espressione di geni e proteine. Queste modificazioni costituiscono le basi per una migliore comprensione dei processi biologici associati alle malattie umane, e offrono la possibilità di individuare potenziali bersagli terapeutici.

    Ci può far conoscere più nel dettaglio il lungo cammino fatto a Biogem?

    Il mio rapporto con Biogem è nato quasi per caso. Non conoscevo questa realtà, ma nel 2009 ho avuto modo di incontrare Roberto Di Lauro, che era il direttore scientifico, e Mario De Felice, all’epoca vice-direttore, e che poi ha sostituito Roberto nella direzione. A quel tempo, avevo da poco iniziato a sviluppare delle metodologie di intelligenza artificiale per l’elaborazione di immagini e dati biologici. Le discussioni con Roberto e Mario mi hanno aperto una prospettiva, che mi è sembrata una sfida temeraria: quella di poter avere accesso a quantità enormi di dati, per i quali dover sviluppare nuove strategie di analisi e classificazione. Con un po’ di incoscienza ho accettato la sfida, cercando di portare, nel settore della biologia computazionale, l’esperienza che avevo maturato nel campo dei metodi matematici e statistici per l’Intelligenza Artificiale.

    E i suoi compagni di strada?

    Nel corso degli anni, nel nostro laboratorio, si sono alternati tantissimi giovani ricercatori. Con tutti conserviamo ancora delle collaborazioni attive. Molti di loro hanno occupato posizioni di rilievo in istituzioni prestigiose a livello internazionale e in importanti aziende biotecnologiche. Un enorme contributo è stato anche dato da alcuni colleghi. Tra questi, non posso non citare il professore Luigi Cerulo, uno dei ricercatori ‘senior’.

    La sua attività spazia in diverse realtà importanti della ricerca mondiale, anche grazie a lei, sempre più collegate al nostro istituto. Può dirci qualcosa dei seminari UniNa di biologia computazionale, sponsorizzati da Biogem e ancora in corso?

    Il dottorato in Biologia Computazionale e Quantitativa, recentemente attivato presso l’Università di Napoli ‘Federico II’, e da me coordinato, testimonia come questa disciplina sia ormai una componente essenziale di tante ricerche di frontiera nelle scienze della vita. Biogem ha avuto ed ha un ruolo fondamentale, sia ospitando diversi studenti del dottorato, che hanno la possibilità avere accesso alle infrastrutture scientifiche all’avanguardia presenti qui, sia attraverso la sponsorizzazione del ciclo di seminari sul tema del dottorato. Abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare, in modalità telematica, ricercatori di grandissimo spessore. Cito, ad esempio, il professore. Gad Getz, relativamente giovane, ma già una leggenda nel campo della genomica, che insegna all’Università di Harvard e al Broad Institute del MIT. Ricordo, inoltre, alcuni ricercatori impegnati nella lotta contro i tumori cerebrali, in particolare contro quelli più aggressivi. Penso al professore. Mario Suva, della Harward University di Boston, e al professore Antonio Iavarone, della Columbia University di New York, al quale mi lega una lunga amicizia, e con il quale abbiamo avuto la fortuna di collaborare in tantissimi progetti. A riprova di questo, diversi giovani ricercatori del nostro laboratorio hanno svolto o stanno svolgendo parte delle loro attività presso il suo laboratorio, a New York.

    E degli studi realizzati dal Laboratorio di Bioinformatica?

    Il nostro maggiore interesse è l’individuazione delle alterazioni molecolari associate alla progressione tumorale e alla risposta ai farmaci.

    Quali i più promettenti, tra quelli attualmente in corso?

    Recentemente, stiamo focalizzando l’attenzione sul sistema immunitario, e su come l’interazione fra le cellule immunitarie e le cellule tumorali possa generare una risposta anti-cancro. Si tratta del principio di base della immuno-terapia. Siamo interessati ai marcatori predittivi della risposta a queste terapie, e a come sviluppare dei metodi di analisi di bioinformatica, per la ricerca di bersagli terapeutici, in grado di favorire la risposta. Questo progetto ha ricevuto il supporto dell’AIRC (Associazione Italiana Ricerca sul Cancro), a cui va il nostro ringraziamento. Per rispondere a questo tipo di domande così complesse, ovviamente non basta il lavoro di un singolo gruppo, ma è necessario uno sforzo coordinato, di livello internazionale. Noi facciamo parte di diversi consorzi, che coinvolgono tanti gruppi di ricerca, in ambito clinico, farmacologico, molecolare, computazionale. In alcuni di questi consorzi, come il progetto The Cancer Genome Atlas (TCGA) del NIH (National Institute of Health) americano, abbiamo contribuito a caratterizzare i sottotipi molecolari dei gliomi. Attualmente, siamo al lavoro nell’ambito del Clinical Proteomic Tumor Analysis Consortium (CPTAC), sempre del NIH americano.

    E i progetti per il futuro?

    L’applicazione dell’Intelligenza Artificiale per lo sviluppo di nuovi farmaci e per il riposizionamento di quelli attuali sta aprendo nuove prospettive per realizzare la cosiddetta ‘medicina personalizzata'. La ricerca in questo campo è in continua accelerazione. Assistere a queste trasformazioni crea nuovi stimoli e porta a nuove sfide.

    Qualche suggerimento alla direzione scientifica?

    Abbiamo la fortuna di avere alla guida scientifica di Biogem un grandissimo ricercatore, come il professore Giovambattista Capasso, che ha dato dei contributi straordinari nel campo della nefrologia e non solo. Apprezzo moltissimo la sua visione e la capacità di stimolare tutti noi, con progetti e sfide di enorme interesse. Credo che la capacità di definire obiettivi ambiziosi sui temi più promettenti, e che possano generare risultati scientifici, con un impatto significativo sulla salute umana, faccia sicuramente la differenza. Gianni, con la sua visione di andare dal paziente al laboratorio e vice-versa, coglie al meglio gli obiettivi di Biogem. Non ho, quindi, particolari suggerimenti da dare, se non quello di continuare su questa strada, con la sua grande esperienza, capacità, energia e passione.

    Ettore Zecchino

     
    Concetta Ambrosino

    Direttrice dell’area di ricerca Geni e Ambiente dal 2011, e dell’area del servizio dedicata alla Generazione di Modelli Geneticamente Modificati dal 2018, Concetta Ambrosino, attualmente docente presso l’Università del Sannio, è presente a Biogem dal lontano 2007, e ne è, quindi, una ‘giovane memoria vivente’. Si deve anche a lei la scelta di un nuovo filone di ricerca, all’insegna della verifica ‘sul campo’, abbracciato dall’istituto scientifico irpino, in materia di inquinanti ambientali e loro effetti sull’uomo. Un nuovo corso, molto apprezzato dalla comunità scientifica, e dalle istituzioni del territorio.

    Professoressa, ci parli un po’ del suo lungo percorso a Biogem

    Nei primi anni 2000, quando ero borsista post-dottorato all’European Molecular Biology Laboratory (EMBL) di Heidelberg, in Germania, con il professore Angel Nebreda, fui contattata dall’allora direttore scientifico di Biogem, Roberto Di Lauro. Non se ne fece niente, fino a quando non tornai dalla Germania. A quel punto, comprai una nuova automobile, e decisi di accettare. Era il 2007, e il mio rapporto con Biogem divenne così intenso che dal 2008 al 2010 mi trasferii ad Ariano Irpino. Pazienza, permanenza e presenza sono sempre state la mia bussola per ‘vivere’ l’istituto. Devo forse a queste tre p una permanenza così lunga e fruttuosa. Ho poi avuto la fortuna di conoscere a fondo il professore Mario De Felice, per me non semplicemente un direttore scientifico, ma un vero e proprio mentore, pur in una fase già adulta della mia vita professionale. Gli approfonditi e continui confronti culturali con lui hanno in parte orientato il mio successivo itinerario scientifico. Dagli ormoni e dalle vie di trasduzione del segnale sono quindi passata ad occuparmi di geni e ambiente, valorizzando e unificando le esperienze pregresse, in un approccio decisamente, e forse, all’epoca, pioneristicamente, traslazionale.

    Come nasce il laboratorio di Geni e Ambiente?

    Nel 2011, grazie anche agli spunti forniti dalla dottoressa Antonella Olivieri, dell’Istituto Superiore di Sanità, prese corpo l’idea di occuparci delle alterazioni dell’attività cellulare determinate da fattori ambientali, con riferimento, soprattutto, all’inquinamento. Siamo partiti dagli effetti sulla tiroide, poi abbiamo focalizzato i nostri studi su patologie dall’incidenza sempre crescente, come il diabete e l’obesità, anche infantile, due vere e proprie epidemie mondiali. Abbiamo quindi pubblicato lavori con risultati di un qualche impatto, dimostrando, ad esempio, che il bisfenolo A, sino ad allora molto usato anche per i neonati, può distruggere le cellule che producono l’insulina, favorendo l’insorgere del diabete, soprattutto giovanile. Anche altri sono i risultati dei quali poter dar conto, ma quello più significativo è stato il riconoscimento unanime di un ruolo da battistrada per la ‘biologia dei sistemi’ in Campania.

    Da chi è composta la sua squadra?

    Storicamente, dagli studenti del corso di Laurea Magistrale in cui Biogem è coinvolta, quali Luisa Severino Ulloa, ora post-doc al Saint Michel Hospital a Toronto, dagli studenti del dottorato di Biogem, quali Danila Cuomo, ora post-doc alla Texas A&M University, e da studenti post-dottorato, quali Immacolata Porreca, che ha contribuito a portare in Biogem lo zebrafish, un modello animale di grande interesse per la ricerca pre-clinica, e che ora è ricercatrice presso Horizon Discovery. I compagni di viaggio attuali sono Valeria Nittoli, post-doc di Biogem, e Francesco Albano e Marco Colella, rispettivamente post-doc e dottorando del mio gruppo di ricerca dell’Università del Sannio. La pandemia ci ha purtroppo privato del sostegno degli studenti della Laurea Magistrale, ma abbiamo già numerose richieste che speriamo di soddisfare presto. Ciascuno di loro ha dato il proprio contributo allo svolgimento degli studi di cui sopra, a cui ha fortemente contribuito anche la squadra dell’area di Servizio, composta da Carla Reale, Luca Roberto, Nico Russo, Filomena Russo ed Alfonsina Porciello.

    Quale ruolo ha avuto la struttura di Biogem in questi studi?

    Biogem è quel concentrato di competenze e servizi, la cui disponibilità è stata fondamentale nel decidere di accettare la sfida di applicare approcci tecnologici innovativi allo studio degli effetti di contaminanti ambientali. Una scelta guidata dal fine di evidenziare l’intero spettro delle patologie connesse alla loro presenza nell’ambiente. Inizialmente, il contributo maggiore lo abbiamo ricevuto dal laboratorio di Bioinformatica, grazie alla competenza del professore Michele Ceccarelli. Quando siamo passati dalle analisi in vitro a quelle su animali, determinante è stato lo stabulario, sia per i roditori sia per i pesci. Grazie al ricorso ad entrambi i modelli abbiamo infatti avuto la possibilità di valutare su due specie diverse l’eventuale ‘coerenza’ di effetti osservati, il che rende plausibile la trasferibilità all’uomo di quanto rilevato. Non è difficile comprendere il valore aggiunto regalato da un istituto come Biogem a una struttura di ricerca come la nostra. Sicuramente ci ha aiutato ad avere un approccio traslazionale.

    Può farci conoscere i progetti già realizzati dal suo team di ricerca, quelli in corso, e i programmi futuri?

    Nel tempo abbiamo un po’ cambiato direzione. Pur confermando il nostro forte interesse per l’impatto dell’ambiente sui geni, ci stiamo, infatti, concentrando sulle conseguenze legate all’esposizione precoce. Le alterazioni dell’ambiente di vita prenatale sono causa di patologie dell’adulto, che hanno una grande diffusione ed un grosso impatto sociale, quali le malattie endocrino-metaboliche (diabete, obesità e infertilità) e le neoplasie maligne. Ce ne siamo occupati, sviluppando un modello innovativo di esposizione, che parta dal concepimento, e perduri in ogni fase della vita. Abbiamo così dimostrato, solo per fare un esempio, che l’esposizione continuativa a semplici pesticidi autorizzati, o il cui uso è stato proibito in Europa nel 2020, può dare origine a steatosi epatica in zebrafish. Nel modello murino, i maschi, non protetti dagli ormoni steroidei, sviluppano obesità, insulino-resistenza, steatosi epatica, e, in alcuni animali, adenocarcinomi. A Biogem abbiamo quindi messo a punto un modello murino, capace di riprodurre la steatosi epatica umana in tutte le sue fasi. Sempre sul modello murino, abbiamo rinvenuto, in particolare, conseguenze sulla fertilità femminile, dovute a un invecchiamento ovarico precoce.

    E le collaborazioni esterne?

    Proprio la parte relativa all’infertilità ci ha portato a collaborare con il professore David Treadgill, della Texas A&M University, e con il professore Cristoforo De Stefano dell’AORN Moscati di Avellino. Gli studi sulla salute endocrino–metabolica ci vedono lavorare da tempo con il CNR-IEOS di Napoli e con il professore Perry Blackshear al National Institute of Environmental Health Science. Gli studi sullo sviluppo di malattie neuronali ci hanno invece portato a una collaborazione con il dottore Filippo Del Bene, presso l’Institut de la Vision di Parigi.

    La pandemia può essere nata a causa dell’inquinamento crescente, soprattutto in alcune aree del pianeta?

    Penso proprio di no. Un ambiente alterato può invece essere responsabile della gravità degli effetti collaterali del morbo.

    Ipotizza un ruolo della sua squadra nell’ambito di questa ‘guerra’ al Covid19?

    Per quanto riguarda la ricerca, stiamo studiando il ruolo che la famigerata proteina spike ha nell’indurre uno stato infiammatorio a livello cerebrale. Sono questi, in particolare, gli studi che la dottoressa Nittoli conduce, utilizzando lo zebrafish. Valeria e gli altri membri del servizio hanno dato un grande contribuito all’attività di Biogem, nell’ambito della refertazione dei tamponi, almeno fino a dicembre 2020. Il loro impegno in questo campo attualmente si è un po’ ridotto.

    Secondo Edoardo Boncinelli, intervistato da Biogem in questi giorni, la ‘salute’ umana dipende per un terzo dalla genetica, per un terzo dall’ambiente, e per un terzo dal caso. Condivide?

    Assolutamente si. E credo che solo il professore Boncinelli poteva essere così brillante nel dirlo.

    Ha dei suggerimenti per il futuro di Biogem?

    Penso si sia già aperto un nuovo corso. La direzione scientifica del professore Capasso è riuscita a imprimere una svolta, in senso sempre più traslazionale, dando a tutti noi l’input per guardare oltre i modelli , e per arrivare al ‘letto del paziente’.

    Ettore Zecchino

     

     

    Giovambattista Capasso

    Professore Ordinario presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, già Presidente della Società Italiana di Nefrologia e membro del Consiglio direttivo della Società Europea di Nefrologia, Giovambattista Capasso è un nefrologo clinico, esperto di malattie renali rare.

    Irpino di Lioni, con importanti e prolungate esperienze all’estero, dal Max Planck Institute di Francoforte, all’Albert Einstein College di New York e alla Yale University, in questa fase della sua prestigiosa carriera, arricchita anche da una lunga docenza presso l’Ateneo Vanvitelliano, è Direttore Scientifico di Biogem. Nel centro di ricerca arianese coordina, inoltre, il laboratorio di Nefrologia Traslazionale, che ha contribuito a far nascere.

    Professore Capasso, può raccontarci il suo incontro con il mondo  di Biogem?

    Erano i primi anni Duemila, quando per la prima volta sentii parlare da Roberto Di Lauro (a quel tempo direttore scientifico di Biogem) di un Istituto di Ricerca ad indirizzo biomedico, avente come target la generazione di modelli murini di malattia. Ne fui subito affascinato perché nel campo delle malattie rare la modellistica animale è punto di forza di ogni progetto di ricerca, e poi perché l’Istituto, presentato con la solita maestria da Roberto, aveva sede nella mia terra. Un mio antico sogno è sempre stato quello di creare qualcosa di importante per la ricerca in Irpinia e sin dagli anni 90, mi ero impegnato per l’apertura di un Corso di Laurea in Medicina & Chirurgia della Università della Campania nella costruenda Città Ospedaliera di Avellino. Il corso partì, ma purtroppo fu chiuso al quinto anno. Che peccato! Qualche tempo dopo l’incontro con Di Lauro decisi di partecipare all’attività di Biogem, inizialmente localizzandovi Anna Iervolino, una dottoranda di ricerca in Scienze Nefrologiche del mio gruppo. Dopo alcuni anni intensificai la mia partecipazione diretta, anche attraverso l’organizzazione di convegni. Il primo, lo ricordo ancora bene, riguardava il rene policistico e fu un grande successo. Nel 2014 fui chiamato dal presidente Ortensio Zecchino per succedere come direttore scientifico a Mario De Felice, in procinto di dirigere una sezione del CNR, a Napoli. In quella fase Biogem era ancora diviso in tre aree e per sei anni ho avuto questo ruolo importante, ma settoriale. Solo da pochi mesi, a seguito dell’unificazione delle precedenti sezioni della ricerca, del service e della formazione, sono diventato direttore scientifico unico dell’intero istituto.

    Quali i suoi programmi in questa nuova veste?

    Biogem deve essere orientato, più che in passato, a coniugare la ricerca di base con quella clinica. Sfruttando, in particolare, il suo straordinario stabulario, i nostri ricercatori possono trovare lo spunto per la loro idea progettuale, partendo dalla malattia del singolo paziente, per poi studiarne la patogenesi ed i meccanismi molecolari, grazie anche a modelli murini generati attraverso l’ingegneria genetica, per poi ritornare al paziente con innovative metodologie diagnostiche e terapeutiche. Si tratta di mettere in pratica l’approccio traslazionale alla ricerca, ottimale per le malattie rare, ma applicabile a tutti i settori delle scienze mediche. Parliamo di una metodologia di ricerca sviluppata in tanti altri istituti, come il Mario Negri di Bergamo. Non è un caso che il suo presidente, Giuseppe Remuzzi, sia diventato anche presidente del Comitato Scientifico di Biogem.

    E quali i progetti attualmente in campo?

    Solo a titolo di esempio, possiamo citare uno studio partito da una osservazione prettamente clinica: l’aumento della patologia neoplastica in pazienti sottoposti a trapianto di rene. Il trapianto di organi è una delle grandi conquiste della terapia medica. Classico esempio di medicina personalizzata, ha permesso la sopravvivenza a migliaia di pazienti dal destino già segnato, garantendo anche una ottima qualità della vita. Delle tre grandi complicanze del trapianto abbiamo vinto la battaglia contro il rigetto e stiamo combattendo quella alle infezioni. Urge affrontare seriamente il problema della maggiore incidenza di neoplasie nei pazienti trapiantati. 

    Circa tre anni fa all’interno del progetto I-CURE, presentato alla Regione Campania dall’Università Luigi Vanvitelli, Biogem ha proposto un sotto-progetto per la identificazione di specifici biomarcatori, predittivi di sviluppo di tumori nei pazienti trapiantati di rene. Tutto ciò è fondamentale per una diagnosi precoce e può essere di aiuto per impostare una corretta terapia. Il progetto ha presto assunto una valenza nazionale, vista la necessità di reperire un numero di pazienti relativamente ampio. Di qui la realizzazione di un kick off meeting a Biogem, con la presenza dei responsabili di tutti i più grandi centri di trapianto italiani. Obiettivo del nostro istituto è poter raccogliere ed esaminare sangue e urine dai pazienti, prima del trapianto, continuando a seguire tali soggetti anche successivamente all’evento, a cadenza annuale. Il progetto avrà una durata  quinquennale, tempo sufficiente per identificare eventuali bio-marcatori. Questi saranno validati mediante iniezione in modelli murini, utilizzabili anche per testare l’efficacia di specifici farmaci. La fase preparatoria dell’accordo nazionale ha richiesto circa 18 mesi, e oggi stiamo finalmente ricevendo i primi campioni, in arrivo da tutto il Paese.

    Ho voluto citare questo progetto, perché, pur partendo dalla nefrologia, necessita di competenze di biologia molecolare, di modellistica animale, di oncologia molecolare, di bioinformatica. In una parola, di Biogem, secondo quella visione olistica di cui abbiamo già parlato. 

    Questo stesso tipo di approccio lo stiamo seguendo anche nello studio del microbiota intestinale, all’interno di un PON nazionale, con capofila l’Università di Bari. Biogem realizzerà, in particolare, il trapianto di feci di pazienti umani su animali gnotobiotici (germ free a livello intestinale).

    Può farci qualche esempio riguardante, più specificamente, il laboratorio di Nefrologia Traslazionale? 

    Stiamo studiando alcune malattie rare, ad impronta genetica, con espressione fenotipica renale. Biogem è protagonista in due progetti finanziati dalla Fondazione Telethon che riguardano la Malattia di Fanconi-Bickel e la Glicogenosi1b, da studiare sia dal lato della patogenesi sia da quello della terapia. Facciamo inoltre parte delle rete regionale delle malattie rare ed anche della rete europea delle patologie rare ad espressione fenotipica renale (ERNKnet).

    E da un punto di vista strutturale quali sviluppi?

    Disponiamo da qualche tempo di un microscopio intravitale a due fotoni, che permette di studiare in vivo, su modelli murini, la funzione di singole cellule. Una tecnologia molto innovativa , presente in pochi laboratori in Italia e nel mondo. Noi la stiamo usando per visualizzare in vivo, grazie a traccianti fluorescenti, la dinamica di singoli nefroni e la funzionalità di specifiche cellule tubulari renali. Nel corso di quest’anno lo stesso strumento sarà settato per lo studio del cervello. L’idea progettuale è quella di studiare singole cellule cerebrali in modelli animali di patologie renali. Essa nasce da una osservazione clinica: in pazienti con varie forme di nefropatie, ma soprattutto con insufficienza renale avanzata, le funzioni cerebrali, ivi compresa la capacità cognitiva, risultano significativamente alterate. Questo progetto è supportato da un grant europeo del programma COST (European Cooperation in Science & Technology) da me coordinato, in cui Biogem si candida ad essere al centro degli studi sperimentali .

    Come è organizzato il laboratorio?

    Attualmente è composto da una dozzina di ricercatori, di varie nazionalità, con backgound diversi, ma uniti da un profondo spirito di gruppo. Sono coordinati da due miei validissimi collaboratori: Francesco Trepiccione, clinico di grande spessore, professore associato di Nefrologia all’Università Vanvitelli, si è sempre occupato di malattie rare, anche nel corso di brillanti esperienze in Danimarca (Aarhus University), Francia (Inserm, Parigi) e Stati Uniti (NHI, Bethesda) . Per quanto riguarda gli studi sulle compromissioni celebrali da patologie renali, il coordinatore è Davide Viggiano, ricercatore eclettico, associato di Nefrologia presso la Vanvitelli, ma con una formazione scientifica nel campo della fisiologia, e, in particolare, della neurofisiologia, che lo rende perfetto per il compito che gli abbiamo assegnato. Tutti i giovani colleghi sono stati attentamente selezionati ed ognuno di loro meriterebbe una piccola nota di merito. Per dovere di ospitalità voglio ricordare Yoko Suzumoto, la nostra ‘giapponesina’ con precedenti esperienze in Germania, esperta nella analisi strutturale di proteine. Suo è il recentissimo lavoro che trovate associato a questa intervista. Degno di nota è anche Vincenzo Costanzo, vincitore di una borsa di dottorato di ricerca della Università di Bologna, e che presto ‘difenderà’, presso l’Alma Mater, la sua tesi di dottorato, inerente gli studi in vivo fatti utilizzando il microscopio a due fotoni. Per completare la formazione scientifica di tutti questi ragazzi abbiamo previsto uno stage all’estero. Ultimo, in ordine di tempo, è il caso di Vittoria D’Acierno, che il primo giugno prossimo, dopo aver conseguito il PhD, volerà in Danimarca, per una esperienza biennale da PostDoc nel prestigioso laboratorio del professore Robert Fenton. Per ricercatori che partono ce ne sono altri che fortunatamente rientrano: Anna Iervolino, la prima nostra collaboratrice, è ritornata a Biogem, dopo uno stage di due anni nel laboratorio della professoressa Nicole Endlich (Germania), dove ha condotto degli studi pioneristici, utilizzando lo zebrafish, il prezioso pesciolino ‘trasparente’, grande speranza per le nuove frontiere della ricerca. Anna Iervolino, ricercatrice di Biogem della prima ora, maturata dopo questa esperienza internazionale, avrà il compito di guidare giorno dopo giorno questo gruppo di giovani colleghi, aiutandoli a crescere in un mondo altamente competitivo, ma affascinante, quale è quello della ricerca.

    Credo che questo sia il massaggio più forte che intendo dare durante la mia direzione scientifica di Biogem: investire fortemente sul capitale umano, scegliendo con cura i colleghi che entrano in Biogem, assecondando la loro naturale inclinazione alla ricerca, risvegliando in loro il senso della curiosità, portando i migliori di loro ad assumere incarichi di alta responsabilità nella struttura di Biogem, che deve essere fortemente piramidale. E questo vale per tutti i comparti del nostro istituto.

    Fare della ottima ricerca non è facile, soprattutto quando si è localizzati in zone periferiche. Diventa impossibile se non si seguono i principi della sana meritocrazia e della profonda collaborazione.

    Ettore Zecchino

    Michele Caraglia

    Responsabile del laboratorio di Oncologia Molecolare e di Precisione, Michele Caraglia, professore ordinario presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, è anche il coordinatore dell’area COVID19, istituita a Biogem grazie alle sue riconosciute competenze in materia. Un’esperienza, questa, destinata, purtroppo a proseguire, visto il prolungarsi dell’emergenza pandemica, ma che ha ormai alle spalle molti mesi di proficuo lavoro. Con l’anno nuovo, a monte di una inevitabile riprogrammazione, si impone, quindi, un’approfondita analisi su quanto fatto finora.

    Professore, può raccontarci i primi passi?

    Il direttore scientifico di Biogem, Giovambattista Capasso, conoscendo il mio specifico profilo professionale, ha subito pensato di schierarmi in prima linea. In effetti mi occupo da sempre di diagnostica molecolare oncologica, che è molto più complessa di quella virale, e, quindi, l’azzardo mi è parso, tutto sommato, contenuto. La determinazione del presidente Zecchino ha poi fatto il resto. Agli inizi intorno a noi campeggiava lo scetticismo. Si pensava, infatti, a un rischio troppo alto per un centro come il nostro, generalmente orientato solo alla ricerca, sia pur traslazionale. Si temeva l’impatto diretto e violento dell’attualità più drammatica e un’inedita sovraesposizione sociale e mediatica. In questo senso, trasformarci così repentinamente in un laboratorio clinico-diagnostico presentava, effettivamente, non pochi rischi, anche in considerazione di una dotazione strutturale all’epoca non proprio ottimale. Siamo infatti partiti con una sola macchina per test Real time’ PCR e non disponevamo di un estrattore automatico di acidi nucleici virali. Le nostre previsioni operative si aggiravano sempre intorno ai 200 tamponi al giorno.

    E adesso?

    Abbiamo da tempo un estrattore automatico, mentre le ‘real time’ sono diventate tre, più un’altra utilizzata sporadicamente. Riusciamo quindi ad analizzare da 800  a quasi 2mila tamponi al giorno, per un totale, fino ad oggi, che sfiora i 140mila. Lavoriamo senza intoppi e a ritmo continuo, anche la domenica.

    Cosa può dirci del suo staff?

    Sono colleghi competenti e motivati. Si deve soprattutto a loro il successo operativo. Tutti bravissimi, ma non posso non citare le coordinatrici del progetto Marianna Scrima e Alessandra Fucci e i dottori Luca D’Andrea e Alessia Cossu. A me, naturalmente tocca un non trascurabile stress da responsabilità.

    Risultati raggiunti?

    Non pochi e forse inaspettati. Partirei da uno studio di genotipizzazione con il professore Alessandro Weisz dell’Università di Salerno che porta a valutare le mutazioni virali tra i vari territori campani (Avellino e Benevento in primis, ma in misura minore anche le altre tre province). In collaborazione con Paolo Maggi dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli stiamo invece studiando le differenze nei parametri clinico-laboratoristici tra prima e seconda ondata. Stiamo inoltre individuando alcune varianti virali presenti sul nostro territorio. Speriamo infine di poter dimostrare l’esistenza  di un’immunità naturale al virus (come si può, talvolta, empiricamente evincere dalla compresenza, nella stessa famiglia, di soggetti lungamente infetti e di altri, con loro conviventi, stabilmente immuni).

    Quali i riscontri presso la comunità scientifica e non?

    La risposta del territorio mi sembra molto favorevole. Ad Ariano e in Irpinia, in particolare, credo si sia rafforzata la consapevolezza dell’utilità di un centro di ricerca come Biogem, anche e soprattutto in momenti duri come questo. Tra l’altro, è nata una start up, chiamata Testami, che ci consente di analizzare, in tempi rapidissimi, tamponi self-service direttamente a beneficio di privati richiedenti, senza passare attraverso le Asl. Anche quest’esperienza darà vita a un’apposita ricerca.

    Le attività  del laboratorio di Oncologia Molecolare e di Precisione sono state condizionate da questa emergenza?

    Certamente non in senso negativo. I tanti studi in stretto coordinamento con l’area Covid19 rappresentano una marcia in più per noi, ma si sono solo aggiunti a quelli ‘storici’, che dopo una prima fase di comprensibile rallentamento, hanno ripreso il giusto slancio. Siamo ad esempio impegnati da tempo, in collaborazione con Gaetano Facchini, attualmente primario di Oncologia all’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli, e al nostro direttore Giovambattista Capasso, nel sequenziamento di geni coinvolti nella responsività del carcinoma renale a farmaci anti-tumorali. Il progetto, risalente al 2017, è ormai  in fase avanzata.
    Molto ci coinvolge uno studio sul carcinoma della laringe, generalmente relegato a tumore di serie b, quindi poco frequentato dalla ricerca, e, non a caso, capace di accrescere la propria mortalità (fortunatamente in controtendenza con la gran parte delle altre neoplasie). In quest’ambito lavoriamo su micro-RNA (piccolissimi frammenti di Rna che regolano l’espressione genica delle proteine), per identificare micro-metastasi. Lo studio, ormai in fase avanzata, riguarda anche i tumori sarcomatoidi della laringe e punta alla scoperta di micro-Rna predittivi di metastasi linfonodali.

    Un altro progetto in corso, finanziato dalla Regione Campania, in collaborazione con la Rete nazionale dei nefrologi e trapiantologi, consiste, invece, nell’analisi di sieri e urine che hanno sviluppato tumori renali.

    Siamo infine quasi al capolinea per un altro progetto che punta all’utilizzo di un nano-sensore per rilevare micro-Rna nel siero dei pazienti, di nuovo con riferimento ai tumori della laringe.

    Per lo scienziato e per l’uomo Caraglia cosa ha significato questo nuovo percorso?

    Una nuova sfida, nella speranza di essere utile alla comunità.

    E per Biogem?

    Altrettanto.

    Un nuovo rapporto scienza-territorio?
    Certamente si. Basti pensare alla novità di un dialogo continuo e diretto con le Asl. Ancor più rilevante, tuttavia, mi appare l’avvicinamento, quanto mai opportuno, tra mondo della ricerca e mondo della clinica.

    E il futuro?

    Proprio volendo mettere a frutto un know how ormai acquisito, speriamo di istituire un pool di diagnostica genetica, con attività ad ampio raggio, partendo dalle malattie oncologiche, ma non limitandoci a queste. Nascerebbe un nuovo laboratorio, con una mission più clinica, chiamato a interfacciarsi direttamente con il Servizio sanitario nazionale. Parliamo di diagnostica molecolare, necessaria premessa delle tanto attese cure personalizzate. Speranza coltivabile grazie alla cosiddetta medicina di precisione, capace di individuare determinate alterazioni molecolari, predittive di risposte a farmaci.
    Dalla diagnostica genetica virale alla diagnostica genetica umana, fino alla ricerca di predisposizioni genetiche il passo può essere davvero breve. Ancor più breve in un centro come Biogem, da sempre incubatore di saperi diversi, con un approccio costantemente multidisciplinare. Un progetto del genere, almeno in ambito campano, sarebbe assolutamente pioneristico.

    Ettore Zecchino

     

    Una delle principali linee di ricerca del laboratorio di Oncologia Molecolare e di Precisione è lo studio di nuovi bersagli terapeutici e marcatori diagnostici nel carcinoma della laringe. Quest’ultimo rappresenta l’unica patologia neoplastica per la quale è stato registrato un peggioramento della sopravvivenza. In questo ambito abbiamo recentemente dimostrato, in una casistica di circa un centinaio di pazienti, che un microRNA (il miRNA449a) determinato nel tessuto tumorale dei pazienti correla con una minore propensione a sviluppare metastasi linfonodali loco-regionali. La predizione di queste ultime rappresenta un importante determinante nella decisione terapeutica dei pazienti con carcinoma della laringe, in quanto richiede trattamenti chirurgici e radianti più aggressivi. Abbiamo anche dimostrato, in modelli sperimentali in vitro, che il miR-449a inibisce l’invasione e la motilità di cellule di carcinoma della laringe, attraverso la repressione di un recettore di staminalità NOTCH-1 e 2. Questi dati suggeriscono che possano essere sviluppate nuove strategie terapeutiche basate sulla veicolazione e replacement di miR449 nel tessuto tumorale laringeo. Un’altra evidenza recentemente emersa nel nostro laboratorio riguarda una variante rara del carcinoma della laringe: il tumore sarcomatoide. Questa variante correla con un maggiore rischio di mortalità, recidiva loco-regionale, metastasi linfonodale e richiesta di trattamenti aggiuntivi alla chirurgia. La gestione di questi tumori da un punto di vista clinico e terapeutico deve essere quindi sostanzialmente diversa rispetto ai tumori convenzionali della laringe (istotipo più comune squamocellulare).

    Michele Caraglia

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