Focus

    Michele Farisco

    Responsabile dell’Unità di Filosofia ed Etica della Scienza di Biogem, Michele Farisco è Dottore di Ricerca in ‘Etica e Antropologia. Storia e Fondazione’ presso l’Università del Salento, e in ‘Filosofia e Neuroscienze’ presso l’Università di Uppsala (Svezia), dove sta sviluppando una ricerca multidisciplinare sugli aspetti neuroscientifici ed etici della coscienza e sulla filosofia dell’Intelligenza Artificiale. Ha scritto quattro monografie e decine di articoli, anche in inglese, sui temi del postumanesimo, del rapporto filosofia‐neuroscienze, della neuroetica, della coscienza.

    Dottore Farisco, in Biogem è una sentinella delle scienze umane. Cosa vede da questa prospettiva?

    Vedo un orizzonte di crescente sintonia tra i due poli in cui tradizionalmente il sapere umano è stato diviso, ossia scienze cosiddette esatte e science umane. Le ricerche condotte a Biogem, e la scienza contemporanea in generale, sono intrinsecamente rilevanti per la riflessione umanistica, e in particolare per quella filosofica, che nel mio piccolo, coltivo. Come, d´altra parte, le scienze umane, la filosofia in primis, possono affiancare le scienze nella definizione delle questioni da affrontare e nella ricerca delle relative risposte. Chiarire i problemi è il primo e più importante passo per poterli risolvere (o, per meglio dire, provare a farlo).

    Come è nato il suo rapporto con un centro di ricerca di bio-genetica?

    Dopo aver assistito all´inaugurazione del centro alla presenza del Premio Nobel Montalcini, non avrei mai immaginato che un giorno sarebbe diventato un posto così rilevante nella mia vita. Poi, casualmente, venni a conoscenza di un master in Biogiuridica organizzato da Biogem: avevo appena finito il mio primo Dottorato di Ricerca, avevo iniziato le mie ricerche in ambito bioetico, e quindi colsi al volo l´opportunità. Così ebbi modo di conoscere il Presidente Ortensio Zecchino, la cui lungimiranza ha fatto il resto.

    Ci racconta il suo percorso?

    Mi sono avvicinato alla Filosofia per ragioni, diciamo così, esistenziali. Successivamente è divenuta, oltreché una professione, il mio stile di vita. Dopo la laurea con il prof. Roberto Esposito a Napoli, ho svolto un Dottorato di Ricerca in Filosofia Morale presso l´Università del Salento, con la supervisione del compianto prof. Mario Signore e del prof. Pasquale Giustiniani. La mia ricerca era relativa al cosiddetto post-umano, e mi ha consentito di gettare un ponte con le scienze (in particolare, scienze computazionali e biologia evoluzionistica). Successivamente, con il Master in Biogiuridica organizzato da Biogem, mi sono avvicinato alle neuroscienze grazie all´intuizione della prof.ssa Laura Palazzani. Quindi, casualmente, ho iniziato un altro Dottorato presso l´Università di Uppsala, in Svezia, sotto la supervisione della prof.ssa Kathinka Evers, nell´ambito del progetto Europeo, 'The Human Brain Project', che mi ha consentito di sviluppare una rete di rapporti internazionali piuttosto vasta.

    Quali scambi fecondi registra tra la sua attività di Responsabile dell’Unità di Filosofia ed Etica della Scienza di Biogem e quella di ricercatore nella prestigiosa Università svedese di Uppsala?

    La mia attività in Biogem, a stretto contatto con il mondo della ricerca, mi consente di conoscere cosa c`è dietro le quinte, per così dire. Questo è importante per capire come la ricerca scientifica procede, quali sono le sue necessità e le sue priorità. In questo modo Biogem mi ha aiutato ad orientarmi nella mia attività internazionale. D´altra parte, dall`esperienza in Svezia ricevo costanti conferme della necessità e del valore di una riflessione filosofica ed etica sulla scienza.

    C’è ancora qualche speranza che il ‘suo’ postumanesimo si risolva in una palingenetica avanzata della tecnologia a vantaggio della libertà ed eguaglianza del genere umano?

    Il postumanesimo come lo vedo io è un processo in larga parte inevitabile i cui esiti, però, dipendono dalle nostre scelte, qui ed ora. Per me post-umanesimo vuol dire un´identità umana in stretta connessione con la tecnologia, “ibridata” con la tecnologia, per usare un termine tecnico. Ma questo non implica di per sè che l´uomo è antiquato, per parafrasare Günther Anders, né che sarà soppiantato da nuove forme di soggetti artificiali: l´uomo è una specie in evoluzione, e continuerà ad evolversi. Ciò che verosimilmente cambierà è la velocità e le modalità di tale evoluzione. Ma la responsabilità etica ricadrà sempre sul soggetto umano, nel bene e nel male. Tuttavia, devo dire, che ci sono molti segnali che suggeriscono che la direzione non è verso una maggiore libertà o uguaglianza: l´utilizzo dell´Intelligenza Artificiale, per esempio, porta con sè delle conseguenze rilevanti sulla privacy delle persone e sulle scelte politiche della nostra società, condizionando, in modo per lo più inconsapevole, i nostri spazi di scelta e di azione.

    Lei ha visto nascere e crescere le ‘Due Culture’, svolgendo un ruolo di primo piano nell’organizzazione e nella realizzazione delle sue 13 edizioni. Quale giudizio sente di poter dare di questa manifestazione? E quali interventi l’hanno maggiormente colpita?

    Devo dire che mi sono affezionato al nostro meeting, non solo intellettualmente, ma anche emotivamente. È cresciuto molto in questi anni, sia come spessore culturale, sia come risonanza mediatica. Ed è indubbiamente profetico il fatto di creare uno spazio di confronto  all´interno di un centro di ricerche di biologia e genetica molecolare. Tra i vari interventi che mi hanno maggiormente colpito voglio ricordarne due in particolare: quello di Jean Pierre Changeux e quello di Oliver Smithies, entrambi nell´ambito del Meeting su ‘La memoria e l´oblio’ del 2014. Changeux, con cui ho l´onore di collaborare, da buon erede dell´Illuminismo francese, incarna lo ‘scienziato filosofo’, il cui pensiero non è mai banale e sempre appassionato. Di Smithies mi ha colpito l`umiltà intellettuale: un Premio Nobel che ringrazia il proprio insegnante delle scuole elementari. Sfido a trovarne un altro.

    Nel 2022 il tema dominante sarà il rapporto tra arte e scienza. Da consumato attore teatrale le fischiano le orecchie?

    Eh, attore è una parola grossa: sono solo un amatore. Mi diverto a giocare con i ruoli e le maschere che le persone intorno a me mi assegnano (e si assegnano). Il teatro per me è uno spazio di libertà: divento Demiurgo di me stesso, e creandomi e ricreandomi sono in grado di ‘toccare’ e condizionare le emozioni del pubblico. È un canale comunicativo privilegiato. Credo che l´arte in generale sia questo. E probabilmente anche la scienza.

    In qualità di arianese doc e di conoscitore del mondo, quale giudizio può esprimere sul rapporto tra Biogem e il territorio circostante?

    Ho viaggiato molto e visitato molti centri di ricerca, in Europa, America e Asia. Posso dire che Biogem non ha nulla da invidiare a nessuno, sia nella “filosofia” che lo sorregge, sia nelle strutture in cui si organizza. È una sentinella per il territorio, una porta aperta verso il futuro. In un certo senso è anche un paradosso, il che spiega, almeno in parte, perchè spesso non è apprezzato come dovrebbe: in un contesto troppo ripiegato su stesso o afflitto da sentimenti di nostalgia per un passato che non c`è più, Biogem è una spinta ad alzare lo sguardo, ad essere parte attiva nella costruzione del nostro destino.

    Può descriverci i progetti realizzati, in corso e in programma nella sua Unità?

    In questo momento sono attivo su tre fronti in particolare: neuroetica; filosofia della coscienza; filosofia dell´Intelligenza Artificiale. In riferimento alla neuroetica, tra le altre cose sto curando un´antologia in lingua inglese su “Neuroetica e diversità culturale”. Sono molto contento perchè sono riuscito a coinvolgere una decina di ricercatori da diversi Paesi, sia europei sia extra-europei (tra gli altri, USA, Canada, Cina, Egitto, Argentina e Cile). Sulla filosofia della coscienza, la mia passione filosofica per eccellenza, sto coordinando, tra l´altro, un articolo multidisciplinare con 18 ricercatori da vari Paesi europei e di diversa formazione disciplinare  (neuroscienziati cognitivi, clinici, computazionali, eticisti, filosofi, e due associazioni di pazienti) su possibili nuove strategie per identificare la coscienza in soggetti comatosi, inclusi i relativi risvolti etici e filosofici. Per la filosofia dell´Intelligenza Artificiale sto coordinando un articolo con esperti del settore sulla cosiddetta ‘brain-inspired AI’, ossia l´Intelligenza Artificiale ispirata al cervello, con particolare riguardo ai possibili, inediti impatti etici.

    Qualche consiglio alla Direzione Scientifica?

    Devo dire che negli ultimi tempi abbiamo avuto modo di conoscerci meglio con il prof. Capasso, con il quale stiamo mettendo in piedi delle iniziative molto interessanti che vanno nella direzione di rinforzare ulteriormente la convergenza tra scienze della vita e scienze umane, già in atto anche in Biogem. Il professore Capasso mi ha infatti coinvolto in un network europeo impegnato nella ricerca sulla connessione tra patologie nefrologiche e patologie neurologiche. Abbiamo, inoltre, sviluppato insieme un ‘proposal’ per un progetto europeo su questi temi. Per cui posso solo compiacermi di questa attenzione verso le scienze umane, con la certezza che continuerà a caratterizzare Biogem.

     

    Ettore Zecchino

     
    Geppino Falco

    Docente ordinario di Biologia Applicata presso l’Università ‘Federico II’ di Napoli, Geppino Falco è un po’ cresciuto in Biogem, dove è approdato ancora molto giovane, e dove, attualmente, ricopre il ruolo di Capogruppo del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo. Sotto i riflettori mediatici per varie attività di ricerca in materia di geni legati all’invecchiamento e alla rigenerazione delle cellule staminali, sta coordinando uno studio letteralmente ‘spaziale’ sugli effetti del resveratrolo, presente nell’uva aglianico, nel contrastare lo stress ossidativo a carico del muscolo scheletrico.

    Recentemente è stato scelto dal Rettore dell’Università ‘Federico II’ di Napoli, Matteo Lorito, come delegato alla Ricerca.

    Professore, ne ha viste tante a Biogem?

    Ho iniziato in Biogem il percorso di indipendenza scientifica, quindi un momento in cui sei focalizzato principalmente su te stesso, per evitare, o quantomeno, ridurre gli sbagli. Tale condizione, da un lato non mi ha consentito di seguire la vita politica ed amministrativa dell’Istituto, dall’altro mi ha dato l’opportunità di vivere in modo intenso i rapporti con i ragazzi, con l’organizzazione dei laboratori, con le apparecchiature ecc.

    Ho visto un Istituto che ha tanta voglia di crescere e di affermarsi nel panorama nazionale ed internazionale, senza rinunciare alla sua identità territoriale. Ho visto il premio Nobel Mario Capecchi giocare a calcio in un campo sterrato e mangiare podolico con una faccia molto incuriosita.

    Ho assistito ad una metamorfosi tecnologica. A tal proposito, ricordo che nei primissimi anni (2008-2009) insieme alla mia prima tesista allestimmo il laboratorio, raccattando tutti gli strumenti che i gruppi ‘ricchi’ non usavano. Gli strumenti erano così vecchi, ma funzionanti, che battezzammo il laboratorio con il nome di ‘Vintage’. Nella seconda fase di questa metamorfosi, invece, ho potuto contare su apparecchiature e tecnologie all’avanguardia.

    Da Rotondi a Baltimora, per poi tornare, in parte, in Irpinia? Un bel percorso!

    In piccole realtà come la mia provincia alcuni risultati e successi vengono notati maggiormente e forse ricevono più enfasi rispetto ad una grande città, facilitando la propria visibilità scientifica.

    Il percorso non è stato mai semplice e a tratti ha presentato forti difficoltà, ma è ancora in corso. In Irpinia svolgo infatti una parte della mia ricerca, che sarebbe complicato fare altrove. Ho quindi la fortuna di poter unire l’utilità scientifica al piacere personale.

    E poi fino allo spazio! Ci racconta quest’ultima esperienza?

    Si tratta di una sfida scientifica con forti ricadute tecnologiche e con promettenti prospettive nell’ambito della salute umana. Gli astronauti operano in un ambiente estremo, che mette a dura prova la fisiologia del nostro corpo. La permanenza nello spazio comporta un forte stress per alcuni tessuti, in particolare quello muscolo-scheletrico. Non sono ancora note le alterazioni molecolari alla base di tali disfunzioni, perché è difficile riprodurre nei nostri laboratori le stesse condizioni ambientali (microgravità, irraggiamento etc). Abbiamo deciso quindi di portare il nostro laboratorio nello spazio. Per poterlo fare abbiamo ideato una struttura portatile che, senza l’ausilio umano, consente lo svolgimento dell’esperimento per almeno due settimane.

    Il progetto si giova di una forte interazione e sinergia tra biologi, fisici ed ingegneri, oltre a partnership con vettori di trasporto spaziali. Diverse sono le sfide da affrontare. La prima, che riguarda l’hardware e il software, è fisica/ingegneristica. Se supereremo tale sfida, nel prossimo futuro cambieremo le modalità con cui effettueremo gli esperimenti di laboratorio. Molte altre sfide sono, invece, di carattere biologico.

    Il progetto in corso prevede che dopo un periodo di circa due settimane la NASA ci consegnerà il campione spaziale, sul quale effettueremo misurazioni di parametri genetici, biochimici e metabolici. I risultati di queste misurazioni ci consentiranno di capire come l’ambiente ‘spaziale’ ha alterato lo sviluppo del tessuto scheletrico e il ruolo dello stress ossidativo nella prevenzione di tali alterazioni. I risultati potrebbero avere un forte impatto sulla produzione di nuovi farmaci, oppure di particolari alimenti, utili per prevenire o trattare l’osteoporosi.

    Lei ha condotto, durante il suo Dottorato a Baltimora (USA), importanti studi sulle cellule staminali. A Biogem, dove ha a disposizione un apprezzato stabulario, sta in parte continuando ad occuparsene?

    A Baltimora ho avuto la fortuna, il piacere e il privilegio di incontrare persone che hanno fortemente influenzato la mia formazione e il mio modus operandi. In Biogem stiamo continuando a studiare gli aspetti che accomunano la biologia delle staminali alla ricerca oncologica.

    Prevede l’opportunità di un più forte coordinamento con il Laboratorio di Epigenetica?

    L’Epigenetica è essenziale per comprendere i processi biologici che studio e richiede una forte esperienza e adeguate metodologie, che caratterizzano il know-how del Laboratorio da poco allestito a Biogem. Si tratta di una opportunità molto importante, che andrà colta quanto prima.

    Quali i progetti in corso?

    Attualmente siamo impegnati a studiare i processi biologici e i meccanismi molecolari che ostacolano l’efficacia delle terapie per trattare e curare il cancro gastrico. La nostra ricerca è infatti rivolta principalmente ai malati oncologici.

    E la squadra in campo?

    La squadra in campo è essenziale. Il nostro gruppo include ragazze e ragazzi, con esperienze maturate sia all’interno di Biogem sia presso altri Istituti. Il team è organizzato in tre aree complementari: biologia cellulare e molecolare in vitro; modelli preclinici in vivo; e modelli preclinici ex vivo. Dovrei ringraziare tanti collaboratori che mi hanno aiutato nel corso degli anni ad allestire un laboratorio competitivo e di ottimo livello. Tra tutti loro, mi fa piacere menzionare il dottore Pellegrino Mazzone, che ha creduto nel mio progetto, si è messo in discussione, e oggi è diventato un punto di riferimento per le attività sperimentali che svolgiamo.

    Suggerimenti alla Direzione Scientifica di Biogem?

    In base alla mia esperienza, ritengo che la parte più importante del nostro lavoro sia il ‘brain storming’. Nei momenti di confronto, spesso anche accesi, emergono le criticità dei progetti, si instaurano sinergie, si propongono e discutono le soluzioni. Adotterei politiche che possano aumentare tali occasioni per l’intera comunità dell’Istituto, partendo dai coordinatori e arrivando ai tesisti.

     

    Ettore Zecchino 

    Lucia Altucci

    Da pochi mesi a capo del Laboratorio di Epigenetica a Biogem, Lucia Altucci ha una prestigiosa carriera nella ricerca e nella didattica alle spalle, sviluppata anche grazie a significative esperienze all’estero. Docente ordinaria di Patologia Generale all’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, della quale è delegata alla Ricerca, attualmente è Presidente del CNGR (Comitato Nazionale dei Garanti per la Ricerca).

    Si devono a lei innovativi studi in materia epigenetica sulle strategie terapeutiche e farmacologiche contro il cancro.

    Lucia Altucci è co-editor in chief delle riviste internazionali Clinical Epigenetics ed Epigenetics Communications, edite da Springer Nature.

    Professoressa, come è stato il suo primo impatto a Biogem?

    La direzione del Laboratorio di Epigenetica è stato l’esito, da me molto sperato, di una collaborazione pluriennale con un centro di ricerca che ho sempre apprezzato molto. Posso quindi serenamente dire che mi trovo bene e che considero questo passaggio della mia vita professionale come un’occasione importante per intensificare la mia attività di ricerca e per implementare la mia rete di rapporti internazionali.

    In poche parole, cos’è l’Epigenetica?

    Si può definire come la scienza che studia la regolazione dell’espressione genica, indipendentemente dalla mera sequenza del DNA. Volendo ricorrere ad una similitudine, se paragoniamo il DNA alla musica, l’Epigenetica è il suo direttore d’orchestra.

    Se ne può parlare come di una nuova frontiera della Medicina?

    Certamente si. L’Epigenetica si occupa, infatti, della fisiologia e della patologia in rapporto all’ambiente, seguendo, quindi, un approccio che definirei molto ‘moderno’. Rimodulando il cosiddetto epigenoma, si può, tra l’altro, operare una sorta di reset, come in un computer, da sfruttare a scopo diagnostico e terapeutico.

    E, in particolare, in ambito COVID-19?

    In questo caso l’incidenza può essere notevole. Basti pensare che la regolazione epigenetica di ACE2 ha un impatto sulla replicazione virale del COVID 19, modificando, quindi, il rapporto tra il virus e l’ospite umano.

    Le sue esperienze all’estero, soprattutto inglesi e francesi, cosa le fanno pensare del livello della Ricerca italiana?

    Il livello è spesso ottimo, nonostante un ammontare di finanziamenti mediamente inferiore rispetto a realtà omogenee alla nostra. Servirebbero, quindi, maggiori risorse.

    E dell’equilibrio di genere, al centro di tante sue battaglie?

    Sebbene molti passi siano stati fatti, è ancora necessario lottare, e non solo nel campo della ricerca.

    Grazie a una start-up di successo, messa su all’interno dell’Università ‘Luigi Vanvitelli’, è diventata anche un po’ imprenditrice. Lo ritiene un percorso consigliabile per far crescere la ricerca?

    Si, lo sfruttamento dei risultati della ricerca, ove applicabile, e lo sviluppo delle sue connessioni in ambito applicativo è molto importante, perché porta un vantaggio economico non solo al ricercatore, ma all’intero Sistema Paese. Non a caso, tale approccio è richiesto proprio dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), che prevede ingenti finanziamenti riservati espressamente alla ricerca applicata (mission 4). La ricerca di base, ovviamente, deve sempre essere libera.

    Ci può spiegare in poche parole i compiti del CNGR, da lei attualmente presieduto a livello nazionale?

    Si tratta del Comitato Nazionale di Garanzia della Ricerca, a nomina ministeriale, chiamato a garantire l’equità delle procedure che riguardano la ricerca di base e la competizione tra pari, ma anche la valutazione qualitativa della ricerca. Per essere precisi, da qualche mese il CNGR è diventato CNVR (Comitato Nazionale di Valutazione della Ricerca), e si amplierà fino a raggiungere il numero di 15 esperti. Un’evoluzione finalizzata anche a una valutazione ottimale dei tanti progetti di ricerca, alla base dei finanziamenti del PNRR. Sono presenti i rappresentanti dei tre macrosettori ERC (European Resaerch Council): Scienze umane e sociali; Scienze della vita; e Scienze fisiche, matematiche e ingegneristiche.

    Quali le sue considerazioni sull’approccio integrato e traslazionale Ricerca-Servizi proposto da Biogem?

    Biogem ha già da molto tempo un apprezzabile approccio integrato. Tra le sue caratteristiche è forse quella che mi ha maggiormente spinto a proporre una collaborazione attiva.

    Ci anticipa qualcosa sui progetti in corso e sull’organizzazione interna nel Laboratorio di Epigenetica di Biogem?

    Ci occupiamo, prevalentemente, del ruolo delle alterazioni epigenetiche nei tumori, in funzione di una maggiore capacità diagnostica e di nuove strategie terapeutiche. Valeria Tucci, in particolare, sta cercando di creare modelli zebrafish per studiare il ruolo delle sirtuine nei tumori e in molte patologie gravi, come quelle cardio-vascolari. Federica Donnarumma è invece impegnata in un progetto sul ruolo epigenetico della proteina HAT4, molto importante in alcuni tumori, soprattutto leucemie. E proprio il modello leucemico è quello da noi più studiato.

    Ha qualche suggerimento da dara alla Direzione Scientifica?

    Solo quello di cercare, laddove possibile, di aumentare la visibilità internazionale dell’Istituto, allargando il solco già tracciato dalla densa attività seminariale e dalle prestigiose collaborazioni in corso.

    Ettore Zecchino

     

     
     
     
     
     

     
     
     
     
     
     
     
     
    Gennaro Marino

    Professore emerito dell’Università di Napoli Federico II, della cui Facoltà di Scienze Biotecnologiche è stato anche Preside dal 2006 al 2010, Gennaro Marino è tra i massimi esperti nazionali nel campo della Proteomica. Socio della prestigiosa Accademia Nazionale delle Scienze, e membro dell’Accademia dei Lincei, nel corso della sua lunga carriera è stato anche ‘Visiting Professor’ presso l’Imperial College di Londra, dal 1987 al 2010. Nella capitale britannica ha svolto anche, per un biennio, le funzioni di Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia. Tra i pionieri in Europa negli studi e nelle applicazioni della spettrometria di massa in campo biomolecolare, in questa seconda fase della sua carriera ha visto nascere e fatto crescere l’Area Formazione di Biogem, tra i fiori all’occhiello del centro di ricerca irpino, e occasione permanente di ‘contatti’ con molte tra le più importanti istituzioni scientifiche a livello internazionale.

    Professore, quando molti chimici si occupavano di plastiche e materiali, lei ha puntato tutto sulla proteomica?

    ll mio percorso formativo è stato alquanto inusuale rispetto alla tradizione chimica degli anni ’60. Frequentavo, sin dagli anni del liceo, la biblioteca dell’USIS (United States Information Service), dove era possibile reperire anche riviste scientifiche e, in particolare, 'Scientific American', la numero uno nell’ambito divulgativo. Dovevo preparare una tesina dell’esame di Chimica Organica II, riguardante la chimica degli aminoacidi, e, sfogliando l’ultimo numero della rivista, incappai in un articolo di Stein e Moore, futuri Nobel nel 1972, di cui conservo ancora gelosamente una copia. Trassi da quell’articolo una tesina che fu molto apprezzata dal futuro relatore della mia tesi di laurea, e nacque così il mio amore per la chimica delle proteine, che ho coltivato per oltre 50 anni e che continuo a coltivare, applicandolo nel campo dei beni culturali. Sono stato il primo laureato in Chimica dell'Università di Napoli a presentare una tesi di laurea sulla purificazione e sulla caratterizzazione di una proteina enzimatica. Per qualche commissario l’argomento era completamente sconosciuto, tanto da chiedere al mio relatore “se questo enzima venisse conservato nello stabulario”. Ovviamente, non avevano idea di cosa fosse un enzima, tantomeno uno stabulario! Insomma, la cultura biochimica di alcuni docenti del corso di laurea in Chimica negli anni '50 non era proprio esaltante. Per mia fortuna, nel giro di qualche anno la scena scientifica della Chimica a Napoli cambierà in modo radicale. Buona parte dei risultati della mia tesi furono poi oggetto di due pubblicazioni sul ‘Biochemical Journal’, a quel tempo una delle riviste internazionali di biochimica più prestigiose.

    Il percorso dalla chimica delle proteine degli anni ’60 alla proteomica degli anni ’90 si realizza in seguito all’introduzione, in questo tipo di studi, di una strumentazione di estrema potenza analitica, lo spettrometro di massa. Devo al mio grande e indimenticabile Maestro, Alessandro Ballio, il mio iniziale coinvolgimento nella spettrometria di massa. Ballio, già allievo a Roma, presso l’Istituto Superiore di Sanità, del premio Nobel Ernst B. Chain, nel 1965 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Chimica delle Sostanze Naturali, in un momento in cui un gruppo di giovani e brillantissimi chimici da tutt’Italia rinnovavano completamente gli studi di questa disciplina. Ballio, che tra l’altro aveva scoperto il precursore delle penicilline sintetiche (l’acido 6-ammino pennicilanico), voleva comunque sviluppare a Napoli una linea di ricerca che si occupasse di chimica delle proteine, e mi invogliò a continuare i miei studi. C’è un preciso episodio che cambiò la mia vita scientifica e che vale la pena di ricordare in questo contesto. In quegli anni la spettrometria di massa, dopo essere stata largamente impiegata nella chimica del petrolio, cominciava a rivestire una certa importanza, insieme alla risonanza magnetica nucleare, per la risoluzione di strutture di sostanze naturali a basso peso molecolare. Ballio riuscì ad ottenere un finanziamento dal CNR per dotare l’Università di Napoli di uno degli spettrometri di massa più avanzati allora disponibili sul mercato. Qualche mese dopo mi comunicò di aver saputo da Edgar Lederer, direttore dell’Institut de Chimie des Substances Naturelles del C.N.R.S., che, presso questo istituto, a Gif-sur-Yvette, usando una macchina simile a quella che stava per arrivare a Napoli, avevano ottenuto la sequenza di un peptide. Aggiunse che forse sarebbe stato utile un mio soggiorno presso il laboratorio di Lederer. Non accolsi la notizia con eccessivo entusiasmo e gli feci osservare che i risultati ottenuti a Gif si riferivano alla sequenza di un piccolo peptide microbico, mentre, richiamandomi ai risultati che i miei miti stavano producendo, non c’era dubbio che la sequenza di una proteina con centinaia di amminoacidi si potesse ottenere solo con i metodi chimici che stavo mettendo a punto. Ballio intuì questa mia perplessità e sbloccò le mie esitazioni con un lapidario: «E chi glielo dice che tra dieci anni non sarà possibile sequenziare anche una proteina con lo spettrometro di massa?». In effetti, ci vollero poco più di 15 anni, e questa lezione di grande prospettiva scientifica ha guidato l’insieme delle mie attività di ricerca e didattiche. Da allora il mio gruppo, coniugando lo studio della chimica delle proteine con strumentazioni sempre più aggiornate e sempre più avanzate, costituisce un punto di riferimento, non solo nel nostro Paese, negli studi di proteomica. Abbiamo affrontato e risolto problemi riguardanti la validazione di proteine ricombinanti, la scoperta di nuove varianti dell’emoglobina umana, la messa a punto di metodi per lo studio di modifiche post–traduzionali, la definizione di aspetti strutturali non facilmente affrontabili con altre tecniche chimico–fisiche, etc. Recentemente, abbiamo rivolto la nostra attenzione alla definizione dei materiali di natura proteica, come le proteine del latte, delle uova, delle ossa, usate per fissare, sia nell’imprimitura sia nella rifinitura di affreschi e, soprattutto, di tempere, da parte dei Maestri delle nostre grandi tradizioni pittoriche.

    Studiare la chimica delle proteine rappresentava una nicchia culturale, rispetto ad altri percorsi intrapresi nella seconda metà del XX secolo come, per esempio, quella, della chimica dei polimeri, anche in conseguenza dell’assegnazione a Giulio Natta del Premio Nobel nel 1963. Devo dire che altrettanta ostilità riscontrai da parte di alcuni amici biologi molecolari. In particolare, qualcuno di loro mi suggerì di abbandonare questo campo, destinato ad esaurirsi, visto che utilizzando il codice genetico si potevano conoscere le sequenze delle proteine dalle corrispondenti sequenze del DNA molto più facilmente, e più rapidamente si poteva ottenerle. Ignoravano, questi miei amici, che le funzioni delle proteine si esplicano anche grazie alle modifiche che esse subiscono dopo il processo di traduzione. Non a caso, proprio in questo campo abbiamo ottenuto successi significativi.

     

    E poi ancora pioniere nella spettrometria di massa?

    Nella risposta precedente ho accennato alla maniera in cui fui coinvolto in questa metodologia sperimentale, che oggi gioca un ruolo chiave non solo nella proteomica, ma anche in un altro campo centrale delle scienze ‘omiche’: la metabolomica. La possibilità di determinare contemporaneamente centinaia di prodotti del metabolismo rappresenta una formidabile e inesauribile fonte di informazioni per lo studio della fisiologia e della patologia cellulare. L’integrazione di tecniche computazionali avanzate come il deep learning con la metabolomica consentirà la modellazione metabolica su scala genomica, ma sarà cruciale nella fenotipizzazione metabolica di cellule patologiche, e nella scoperta dei biomarcatori precoci.

    Oggi quali studi possono dirsi di avanguardia nel campo della biochimica?

    La Biologia Computazionale e Quantitativa sarà in grado di accelerare le conoscenze sui sistemi di controllo e di regolazione e di fornirci perciò le tante risposte riguardanti l’omeostasi biochimica. In un discorso di prospettiva non posso non accennare al fatto che la proteomica potrà fare a meno della spettrometria di massa. La possibilità di sequenziare le proteine con la metodologia dei nanopori, utilizzata con tanto successo nel sequenziamento del DNA, sta percorrendo in questo momento i primi, incerti passi. Sono tuttavia convinto che nel giro di dieci anni diventerà la tecnica elettiva per lo studio delle proteine. Gli spettrometristi di massa proteomici sono avvisati.

    La sua lunga esperienza londinese cosa le ha insegnato?

    Sono stato, e forse lo sono ancora, malgrado la Brexit e Boris Johnson, un anglofilo, e la mia formazione scientifica ha fortemente risentito delle mie frequentazioni inglesi. Uno dei miei miti scientifici è stato Frederick (Fred) Sanger e ricordo come uno dei momenti più emozionanti della mia vita, la cena che il mio amico Richard Perham organizzò al St John's College di Cambridge, a cui partecipò anche Fred. L’uomo che aveva ottenuto due Premi Nobel conversava con me con pacatezza, con tranquillità, direi quasi con umiltà, senza l’antipatica spocchia che avevo spesso riscontrato negli incontri con altri insigniti del riconoscimento svedese. Un grande, indimenticabile momento. Il mio errare in terra di Albione prende il via a Manchester e a Liverpool, alla fine degli anni 60, perché in quel momento, in una stretta collaborazione tra università e industria, venivano realizzati i più avanzati spettrometri di massa. Coglievo però le occasioni di convegni e di eventi per visitare quello che era il sancta sanctorum della Scienza in quel momento: l’LMB, al Cavendish Laboratory di Cambridge, dove circolavano decine di Premi Nobel, tra cui lo stesso Sanger, Crick, Perutz, Kendrew, Klug, Milstein, Walker. In una di queste occasioni ebbi occasione di incontrare Howard R. Morris, il vero inventore della proteomica, già prima che venisse battezzata così, nel 1994. Con Howard si stabilì una forte e duratura amicizia, contraddistinta da stima e affetto reciproci. Tra l’altro, il destino volle che proprio Howard nel 1975 fosse chiamato all’Imperial College a ricoprire la cattedra di Biochimica che aveva istituito Boris Chain, il maestro del mio maestro, quando da Roma era tornato a Londra. A partire dal 1975 c’è stato un lungo pellegrinaggio di miei allievi che hanno frequentato i laboratori dell’Imperial College, molti dei quali hanno raggiunto posizioni apicali, non solo nel campo della proteomica. Io stesso ho soggiornato a lungo a Londra, e, anche durante lo svolgimento della mia funzione di consigliere scientifico all’Ambasciata, frequentavo, nel tempo libero, i laboratori, seguendo in parte le tesi di due dottorande, e la piscina dell’Imperial! C’è stato un momento in cui c’erano ben cinque napoletani nel laboratorio di Morris, e molti amici inglesi rimpiangono ancora l’odore del caffè che si espandeva dalla moka espresso al nostro ritorno dal pranzo.

    Ci spiega le differenze tra il sistema della ricerca inglese e quello italiano?

    Quando ho frequentato l’Inghilterra, non erano ancora arrivati i grossi finanziamenti europei che hanno sostenuto poi la ricerca britannica dal 1990 in poi ( fortemente contraria alla Brexit è stata proprio la comunità di ricercatori). I grandi finanziamenti locali, erogati essenzialmente su progetti dai cinque consigli delle ricerche e da fondazioni private, erano mirati e gestiti con la massima efficienza possibile, con controlli sul posto, in itinere ed ex-post. Ricordo che all’Imperial quando c’erano queste ispezioni, della durata anche di una settimana, si sentiva il terrore correre sul filo. In Italia, invece, come si sa, ci si fida sulla parola.

    Quali i difetti e i pregi di entrambi?

    Da più di venti anni non frequento regolarmente l’Inghilterra e da più di dieci non sono impegnato nella ricerca attiva. Darei, quindi, una valutazione obsoleta di una situazione che si evolve con elevato dinamismo. Mi sento comunque di dire che i nostri pregi risiedono tutti nell’intelligenza dei nostri giovani ricercatori, nella loro fantasia, nel loro entusiasmo. Purtroppo, queste fantastiche caratteristiche vengono appieno sfruttate solo da sistemi efficienti, come quelli che si ritrovano generalmente all’estero e, in particolar modo, in Inghilterra.

    Cosa l’ha spinta ad aprire una nuova fase della sua carriera a Biogem?

    Ebbi il piacere di visitare Biogem nel 2009, su sollecitazione dell’amico e collega Mario De Felice, allora Direttore Scientifico, nonché autorevole membro della Facoltà di Scienze Biotecnologiche, di cui ero Preside. Ebbi così l’onore e il privilegio di incontrare personalmente il Presidente Zecchino, la cui opera come Ministro avevo da sempre apprezzato e ammirato. In quella occasione si fissarono le condizioni per stabilire la collaborazione didattica tra la facoltà di Scienze Biotecnologiche e Biogem, ed estendere la convenzione per l’istituzione e l’attivazione del Corso di Laurea Magistrale in ‘Scienze e Tecnologie Genetiche’ anche all’Università di Napoli Federico II. Nel 2010, al momento della mia collocazione in quiescenza, fui molto onorato della proposta che mi fece il Presidente Zecchino di coordinare le attività formative che facevano capo a Biogem e, in particolar modo, quelle del Corso di laurea magistrale. Fui molto felice quando il Presidente accolse la mia proposta di trasformare la metodologia didattica del corso di laurea, integrandola nelle attività di ricerca che si svolgevano a Biogem. Gli studenti, selezionati con una prova di accesso piuttosto impegnativa, avevano l’obbligo di frequentare l’Istituto dalle 9:00 alle 18:00 per cinque giorni alla settimana. Seguivano le lezioni frontali, previste dal piano di studio, ma anche attività di esercitazioni di laboratorio, che erano state progettate ad hoc, grazie alla generosa collaborazione dei ricercatori di Biogem. Nelle poche ore libere da impegni, gli studenti venivano sollecitati a studiare in classe. Si rafforzava, così, lo spirito di gruppo, e si realizzavano percorsi didattici ‘’dal basso verso l’alto’’, che ho sempre ritenuto proficui ed efficaci. Erano, inoltre, tenuti a seguire tutte le attività culturali e scientifiche, a partire dalla splendida manifestazione settembrina delle 2 culture. I risultati sono stati eccezionali. I nostri 160 laureati hanno infatti conseguito il titolo di studio all’interno della durata legale del corso di laurea, e non abbiamo avuto un solo fuori corso. Moltissimi di loro hanno con successo partecipato alle selezioni per l’accesso a scuole di dottorato prestigiose, non solo in Italia, e, successivamente, hanno proseguito la carriera accademica. Tutti affermano l’importanza del periodo formativo trascorso ad Ariano e mettono in evidenza il vissuto in un ambiente di ricerca che ha decisamente facilitato il loro rapido inserimento in ambienti competitivi, come quelli del Karolinska Institute di Stoccolma, dell’Università di Zurigo, dell’Università di Barcellona, della SISSA di Trieste. Questa esperienza si è conclusa nel 2018, perché era nostra intenzione far partire un ambizioso programma didattico che avrebbe coinvolto la Scuola Normale di Pisa, con l’istituzione e l’attivazione di un corso di laurea magistrale in Biologia Quantitativa e Computazionale, anzi in Quantitative and Computational Biology, trattandosi di un corso offerto a una platea internazionale. Una serie di contingenze ha fatto venir meno l’impegno della Scuola Normale, anche se formalmente sottoscritto alla presenza del Capo dello Stato. Siamo convinti della validità di questo progetto, tanto da aver dato l’occasione per l’istituzione di un corso di dottorato dal titolo omonimo, dell’Università di Napoli Federico II, in collaborazione con Biogem. Il presidente Zecchino e io stiamo esplorando varie possibilità per dar luce a questa innovativa proposta formativa, e sono fiducioso che presto si possa addivenire a un coinvolgimento di vari atenei ed istituzioni campane, per una ripartenza, in tempi brevi, del progetto. Come già ho detto sopra, l’intelligenza artificiale rivoluzionerà la biologia, e c’è la necessita di formare figure professionali che integrino le competenze informatiche con quelle biologiche. Proprio come quelle che il corso di laurea che abbiamo in mente propone.

    Si sente più ricercatore o formatore?

    Le due figure si integrano e si compenetrano. D’altra parte, il mio successo scientifico non è altro che la risultante della bravura, dell’impegno, dell’entusiasmo dei miei allievi. In definitiva, l’accademia ha un senso se si è in grado di creare una scuola, coniugando le capacità di formatore e di ricercatore.

    Può farci un bilancio complessivo della lunga stagione irpina?

    Un bilancio più che positivo, soprattutto in relazione al successo del modulo didattico che avevamo realizzato. Sul piano personale, devo dire di essermi notevolmente arricchito per la molteplicità di esperienze umane e culturali che lo straordinario ambiente di Biogem, sotto l’eccezionale guida, saggia e visionaria, del Presidente Zecchino, mi ha offerto.

     

    E i progetti futuri?

    Cercare di portare a termine l’attivazione del corso di laurea magistrale in Biologia Quantitativa e Computazionale. Ci lavoro ormai da quattro lunghi anni, e sarei felice se potessi salutare, nel settembre 2022, l’inaugurazione di questa nuova, entusiasmante avventura formativa, concludendo così il mio lungo periodo di associazione con Biogem.

    Suggerimenti alla Direzione Scientifica?

    La direzione scientifica di Biogem ha trovato nel professore Capasso l’esperienza, le competenze, l’entusiasmo di un clinico illustre e di un ricercatore eccellente. L’amico Gianni non ha bisogno di suggerimenti, e d’altra parte, abbiamo sempre concordato nel ritenere centrale, anche per l’attività di ricerca di Biogem, il momento formativo.

    Ettore Zecchino

    Maria Luisa Nolli

    Pioniera nel settore dei farmaci biotecnologici e dei medicinali per le terapie avanzate a livello nazionale, Maria Luisa Nolli è da alcuni anni ai vertici delle attività di Service di Biogem, essendo a capo del Laboratorio di Produzione di Proteine ricombinanti e Anticorpi monoclonali. Cremonese di nascita, si è laureata all’Università di Pavia. Assegnataria di una fellowship all’Universitèe Libre de Bruxells, ha fatto la sua carriera nel centro ricerche Lepetit, parte delle multinazionali della Dow Chemical, occupandosi già allora di farmaci biotecnologici. Detentrice di 11 brevetti e autrice di una sessantina di pubblicazioni scientifiche, apporta al centro di ricerca irpino ‘verve’ ed efficientismo lombardi, contribuendo in maniera determinante a quel nuovo corso traslazionale che Biogem prova a realizzare quotidianamente da anni.

    Dalla ricca Lombardia al profondo Sud interno. Il suo è un punto di osservazione privilegiato.

    La ricca Lombardia offre alle persone maggiori possibilità per sviluppare i propri talenti. Nel profondo Sud, per stare all’immagine suggerita, si trovano intelligenze eccellenti e quella creatività che, abbinata all’efficienza, diventa un fattore assolutamente determinante per un’attività di successo.

    Quali le sue impressioni sulla qualità della ricerca a queste latitudini?

    Nella mia esperienza, ottime. La passione spesso riesce a superare i tanti problemi, purtroppo evidenti, compresi quelli di natura economica. L’attitudine ad affrontare ostacoli, in percorsi di innovazione, è molto importante, soprattutto in un mondo complicato, come quello di oggi

    Quale apporto pensa di aver dato e spera ancora di dare a Biogem?

    Spero di continuare a traghettare il gruppo che dirigo verso un’attività di sviluppo industriale, orientata ad offrire servizi sia alla comunità imprenditoriale sia a quella scientifica.

    Cosa ha ricevuto?

    Sicuramente l’entusiasmo di poter elaborare nuove idee e di valorizzarle industrialmente.

    Come è nato il Laboratorio di Produzione di Proteine?

    Nel 2015 ci furono i primi contatti con Tullio Bongo, già all’epoca direttore amministrativo del nostro Istituto, che sfociarono poi in una collaborazione, tutt’ora attiva. Partimmo con una importante commessa di un cliente tunisino per un prodotto biosimilare. Fu un buon successo, e siamo quindi passati a una collaborazione continuativa.

    E come è organizzato oggi?

    Piano piano si è strutturato, per poter offrire servizi a 360 gradi, dal clonaggio ed espressione di geni codificanti per anticorpi e proteine, alla produzione e purificazione di lotti per la ricerca pre-clinica. E ancora, dalla messa a punto e validazione di test ELISA, ai servizi di genomica funzionale, fino alla generazione e produzione di prodotti biosimilari proprietari.

    Quali i progetti realizzati, in fase di esecuzione, e in programma?

    In questi anni il gruppo ha lavorato ad oltre 50 attività di service su commessa, e a 5 progetti proprietari per lo sviluppo di farmaci biosimilari. Il team partecipa inoltre a diversi progetti di Ricerca. Fra questi, di particolare rilievo, è quello finanziato dalla Regione Campania, che ha portato alla realizzazione del QuantiGEM. Degno di nota è anche un progetto finanziato dal MISE, finalizzato all’identificazione di approcci innovativi per il trattamento e la diagnosi del Mesotelioma. Si può infine ricordare il progetto finanziato dal MIUR, volto a migliorare la gestione clinica delle malattie oncologiche attraverso un approccio basato sulla biopsia liquida.

    Nel prossimo futuro si concluderanno gran parte dei programmi attualmente in corso, e il team potrà dedicarsi a nuovi progetti di ricerca e sviluppo, sia proprietari sia finanziati. E’ in programma una ulteriore implementazione delle attività del team, da realizzarsi anche attraverso l’assunzione di nuove unità di personale, e attraverso l’ampliamento del parco macchine.

    Il suo staff?

    Il mio staff è composto da giovani competenti e appassionati, tutti con dottorato, ed alcuni con pregnanti esperienze all’estero. La responsabile del laboratorio è Alessandra Fucci, che apporta quotidianamente al gruppo il suo entusiasmo verso il lavoro, ma anche un solido know how in biologia molecolare, e la capacità di affrontare qualsiasi progetto senza timore.

    I rapporti tra Ricerca e Servizi?

    I Servizi nel settore delle biotecnologie non possono prescindere da una Ricerca solida ed affidabile. I prodotti sono infatti altamente sofisticati e richiedono il supporto continuo di nuovi studi. In questo senso, Biogem è il centro ideale, grazie alle fondamenta ben piantate nella Ricerca biomedica, e l’imprinting traslazionale che si è dato da qualche anno.

    Suggerimenti da dare alla direzione scientifica di Biogem?

    La mia preghiera è di considerare sempre le attività di Service come una imprescindibile applicazione della Ricerca. Spero inoltre che possa essere intensificato il dialogo tra tutti i coordinatori, forse un po’ ‘frenato’ dalla stagione pandemica.

    Ettore Zecchino

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