I protagonisti delle due culture

    Gennaro Carillo

    Gennaro Carillo

    Professore ordinario di Storia del pensiero politico all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove insegna anche Storia della tradizione classica e Storia della filosofia antica e medievale, ha scritto su Vico, Erodoto, Tucidide, i tragici, Aristofane, Platone (sul quale ha curato un numero monografico della rivista ‘Filosofia politica’), Balzac, Simone Weil. Ha lavorato sul mito classico e i suoi riusi moderni, in particolare sul tema mitico di Diana e Atteone. Approfondisce da tempo il rapporto fra politica e immagine. Condirettore artistico del festival SalernoLetteratura, è Consigliere d'amministrazione della Fondazione Premio Napoli e componente del Comitato scientifico della Fondazione Idis-Città della Scienza. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani: Il Mattino, Repubblica, il Corriere del Mezzogiorno, il Manifesto, il Foglio.

     

    Professore, le due categorie 'eterne' del politico sono progressismo e conservatorismo?

    Difficile parlare di categorie ‘eterne’. Tutto ciò che è storico è in continuo divenire, si trasforma. L’idea di progresso, secondo un’opinione non unanime tra gli studiosi, è un concetto tipicamente moderno. Eppure, elementi di un’idea ante litteram di progresso sono riscontrabili, per esempio, in un poeta-filosofo come Lucrezio. Peraltro, sia Atene sia Roma sono sempre state teatro di scontri fra innovatori e laudatores temporis acti o tradizionalisti: basti pensare alla polemica di Aristofane contro Euripide, responsabile di una corruzione tanto estetica quanto morale.

     

    Platone brillantissimo progressista, ma snob e antidemocratico, Aristotele conservatore e democratico?

    Più che progressista, Platone è radicale e rivoluzionario, perché non conosce mezze misure e non pensa che la politica possa essere modificata con piccole riforme. L’orizzonte di senso della politica deve, al contrario, essere radicalmente modificato, facendo tabula rasa dell’esistente. Condivido, invece, pienamente il suo giudizio sulla vocazione antidemocratica di Platone. Direi, anzi, che qualsiasi tentativo di conciliare Platone e la democrazia è votato allo scacco. Nemmeno Aristotele è particolarmente tenero nei confronti della democrazia, ma la sua critica è molto meno radicale. Peraltro, mentre per Platone il sapere politico è una scienza (parla proprio di episteme), per Aristotele, in politica come in tutti i campi dell’agire pratico, è vano ricercare una esattezza di tipo scientifico, dal momento che sono in gioco variabili come le passioni umane, contraddistinte da estrema incostanza. Aristotele ritiene che la politica richieda non scienza ma saggezza pratica, phronesis, un sapere che poggia su fondamenti più deboli, congetturali, ma che consente una maggiore elasticità rispetto alla mutevolezza delle situazioni contingenti.

     

    Da Pericle a Tocqueville il passo quanto è lungo?

    Direi lunghissimo. Parliamo di due idee di democrazia. Il nome è lo stesso, la ‘cosa’ è profondamente diversa. Nell’Atene di Pericle, il demo è una minoranza ristretta, ottenuta al prezzo di esclusioni molto dolorose, in primo luogo quella delle donne, e di una distinzione per noi inconcepibile, quella tra liberi e schiavi. Nell’orazione funebre per i caduti del primo anno di guerra del Peloponneso, Tucidide – un oligarca – attribuisce a Pericle una concezione della democrazia come regime della partecipazione e della mobilità sociale (almeno in linea teorica). Come Aristotele, Tocqueville pensa che la democrazia incarni il destino della politica. In questo, le diagnosi di entrambi si sono rivelate profetiche. Tocqueville coglie uno dei grandi problemi della democrazia di massa: il binomio apatia-individualismo. C’è il rischio concreto, nelle grandi democrazie, della disaffezione, della fuga dalla politica, del conformismo: che è il fenomeno cui da tempo stiamo assistendo, con una contrazione impressionante del numero degli elettori che esercitino effettivamente il proprio diritto di voto, oltre che con uno scadimento complessivo della qualità della democrazia (strettamente connessa al capitale sociale).

     

    Come si concilia l’elogio della partecipazione con il ricorso massiccio al sorteggio nella democrazia ateniese?

    Per Aristotele, il sorteggio è la procedura democratica per eccellenza di selezione del personale politico, in quanto presuppone l’uguaglianza – anzi l’intercambiabilità – di tutti i cittadini. L’elezione, viceversa, si configura come un criterio aristocratico, perché introduce un elemento di distinzione tra i cittadini. Ovviamente, quella di un corpo politico coerente al proprio interno è una grande illusione, un costrutto retorico. Non a caso, su di esso si fonda la critica che Platone indirizza alla democrazia: regime che si affida al caso nella scelta di chi governa la polis. Platone non è tenero neppure con l’oligarchia: forma di governo che seleziona i governanti alla cieca, facendo appello alla ricchezza, il cui dio – Pluto – è cieco. La ricchezza, come la nascita, non è un selettore politico valido. Il solo criterio giusto è la conoscenza.

    La democrazia ateniese fu un regime che cercò di allargare il più possibile la partecipazione. Il problema è che la stragrande maggioranza delle fonti superstiti è riconducibile ad autori antidemocratici o di esplicite simpatie oligarchiche. Il che rende opportuno guardare a queste fonti – ivi compreso Tucidide – col beneficio d’inventario. Per Tucidide, al tempo di Pericle, la costituzione ateniese di nome era una democrazia ma di fatto il governo era saldamente nelle mani del primo cittadino (ossia di Pericle). Non a caso, Lorenzo Valla, nel XV secolo, tradurrà questa perifrasi tucididea con una sola parola, molto eloquente: principatus. Un principato democratico, dunque. Tucidide ci racconta che, quando c’era da sospendere la democrazia, perché altrimenti le passioni del demo si sarebbero dimostrate ingovernabili, Pericle non si faceva pregare e imponeva che si decretasse una sorta di stato di eccezione, concentrando su di sé pieni poteri. In un dialogo attribuito a Platone, il Menesseno, la democrazia è definita come aristocrazia con il consenso della maggioranza.

     

    A proposito di Rinascimento e patriottismo a parte, Machiavelli è sopravvalutato?

    Assolutamente no. Profondo conoscitore degli antichi, Machiavelli si situa a cavallo tra pre-modernità e modernità e resta una chiave di comprensione di cruciale importanza. Il suo realismo politico, spostando di continuo l’angolo visuale e imponendoci uno sguardo multifocale sulla realtà, è un apporto di cui non si può fare a meno.

     

    Giovambattista Vico è, invece, sottovalutato?

    Come filosofo, Vico è senz’altro più originale di Machiavelli, che per di più filosofo non era né ambiva a essere. Il pensiero politico di Vico è per molti versi tributario di quello di Machiavelli, anche se questo debito non poteva essere dichiarato esplicitamente, trattandosi di un autore empio quant’altri mai. Ma Lucrezio, altro autore empio, è una presenza costante in entrambi. Altro denominatore comune il rapporto tra umanità e ferinità: sia per Vico, sia per Machiavelli, l’uomo è una creatura doppia, sulla quale incombe sempre lo spettro dell’imbestiamento, la possibilità di regredire a uno stato selvaggio.

     

    L’ultimo grande pensatore politico italiano?

    Direi Gramsci e Croce. A entrambi arride grande fortuna all’estero in questi anni.

     

    La democrazia è ‘aristotelicamente’ il ‘destino della politica’?

    Le avrei risposto di sì fino a qualche decennio fa. Ora sarei meno ottimista. Sia le oligarchie economiche, la presa del capitalismo finanziario sulla politica, sia le democrazie illiberali di questi ultimi anni (vere e proprie autocrazie, come le chiama Anne Applebaum) hanno eroso alle fondamenta molte delle garanzie democratiche. E il processo non accenna ad arrestarsi.

     

    Oggi in quale stadio degenerativo della democrazia ci troviamo?

    In uno stadio nel quale, per la prima volta da molti anni a questa parte, tutto sembra possibile. Certezze che credevamo granitiche si stanno sbriciolando. Una spallata violentissima è venuta dalla cosiddetta post-verità: l’orizzonte del discorso pubblico è segnato da una manipolazione costante, da strategie di propaganda raffinatissime che vanificano la linea di confine tra il vero e il falso. Hannah Arendt aveva messo in guardia contro questo esito. Ma la sua profezia è rimasta inascoltata.

     

    Superato Biden e attenuata la dittatura del politicamente corretto, la globalizzazione potrà crollare sotto i colpi inferti da Donald Trump?

    Non parlerei di dittatura ma semplicemente di eccessi – talora grotteschi – del politicamente corretto. Chi parla di dittatura in fondo sposa una tesi costruita ad arte da chi concepisce la libertà di parola come una licenza di sconfinare sia nel linguaggio d’odio (hate speech) sia nella menzogna seriale. Trump piace agli antiglobalisti – di sinistra come di destra – perché lo considerano un agente del caos e una figura estranea all’establishment. Agente del caos lo è di sicuro, ma è espressione dell’establishment. In Trump gli antiglobalisti vedono il profeta di un processo di ri-territorializzazione della politica. Di una politica di nuovo fondata su identità – e sovranità – forti. Di uno Stato inteso nuovamente come ordinamento territoriale sovrano. Di sicuro c’è che il termine ‘globalizzazione’ non è più idoneo a designare la realtà attuale. Abbiamo bisogno di un vocabolario nuovo.

     

    Azioni politiche come i dazi vanno interpretati come un’occasione, un passaggio dalla padella alla brace o una tragedia assoluta?

    Non avendo sufficienti competenze in economia, non saprei risponderle con la dovuta serietà. Mi sembrano una esibizione muscolare ad usum dell’elettorato trumpiano. Non a caso, Trump sta già facendo marcia indietro su molti versanti, dopo aver compreso che i dazi avrebbero penalizzato anche l’economia americana. Ciò non toglie che siamo di fronte ad armi di guerra commerciale che si sono sempre adottate. Quel che è certo è che richiederebbero una risposta univoca dell’Europa e non singole negoziazioni in ordine sparso.

     

    Le più grandi ideologie politiche del Novecento?

    Il comunismo, la grande illusione, che tuttavia ha incarnato la speranza di milioni di lavoratori. E il neoliberismo, vincente nel secondo Dopoguerra, ma che mostra segni evidenti di cedimento. Comunque, il comunismo è finito. La fine del capitalismo non si vede all’orizzonte. Come recita una battuta variamente attribuita: è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo. A tal punto il capitalismo è arrivato a essere l’orizzonte di senso della nostra vita.

     

    Quali di queste sopravvivono oggi?

    Direi nessuna. Ma un pensatore come Marx resta un interprete formidabile non solo del suo tempo, avendo anche avuto delle intuizioni profetiche.

     

    Gode di maggiore salute l’idea di Europa o la sua ‘applicazione pratica’?

    Mi appaiono entrambe in pessima salute. L’ottima prova fornita durante il COVID, si è trasformata nel suo contrario in occasione della guerra in Ucraina. Comunque, non è il momento di baloccarci sul Titanic che sta affondando. L’intellettuale che certifichi – gongolando sotto sotto – la morte dell’Europa non offre nessuna risposta ai problemi concreti, fa solo bella figura negli orridi salotti televisivi. Dobbiamo tenerci stretta l’Unione Europea, ovviamente provando a migliorarla, svincolandola, ad esempio, dalla regola dell’unanimità in Consiglio su materie chiave.

     

    Quale futuro immaginare e costruire per l’Italia?

    Va assolutamente potenziato il capitale sociale, troppo scarso. Ne va della qualità della democrazia. Andrebbe finalmente riformata la Rai, che non può continuare a essere riserva di caccia delle maggioranze politiche, perché offra davvero un servizio pubblico. Va promossa la partecipazione. Ma oggi, con partiti ridotti o a oligarchie o a partiti personali, la vedo molto dura.

     

    Perché a Benedetto Croce riserva solo grande rispetto ma non ‘trasporto’ filosofico?

    Lo ritengo un classico. Non sono di formazione crociana. Ma questo non significa nulla e soprattutto non m’impedisce di cogliere in Croce un grande maestro di realismo politico.

     

    Come spiega l’adesione di singoli grandi intellettuali, solo a titolo di esempio, Giovanni Gentile in Italia, a fenomeni esplicitamente totalitari e culturalmente raramente sofisticati, come il fascismo mussoliniano?

    Gentile non fu il solo. Fu in ottima compagnia. All’inizio, nemmeno Croce comprese fino in fondo il pericolo costituito dal fascismo. In Germania, giganti come Carl Schmitt e Heidegger aderirono con convinzione al nazionalsocialismo. È la dimostrazione che la qualità intellettuale non si concilia necessariamente con la lucidità della visione politica. Nel caso di Heidegger, poi, incise anche un certo tatticismo, qualche miseria morale. I tempi di crisi rendono inservibili le categorie con le quali si è pensata la politica e allora si rischia di guardare con benevolenza ad avventure che poi si riveleranno tragiche negli esiti. 

     

    E all’opposto, la fascinazione intellettuale di massa per il ‘sofisticato’ orrore comunista?

    Il comunismo fu un’illusione ma anche una speranza. Come tutte le rivoluzioni, anche quella comunista era disposta a commettere o avallare qualsiasi nefandezza in nome dell’ideale. Il terrore è una sorta di effetto collaterale della rivoluzione. La fascinazione nasce dall’effetto di accelerazione del tempo storico che si accompagna a ogni fenomeno rivoluzionario. Quello che mi ha sempre fatto orrore del comunismo – di cui pure ho in parte subito, da ragazzo, la seduzione – è il dogmatismo, l’ortodossia religiosa. Nemmeno il glorioso Partito Comunista Italiano ne è stato immune. 

     

    La politica è una cosa troppo seria per lasciarla fare solo agli intellettuali?

    La parola ‘intellettuale’ a Giorgio Manganelli non piaceva affatto: la trovava burocratica, catastale…Oggi vedo in giro molte macchiette, molte contraffazioni dell’intellettuale. E soprattutto trovo immondo l’effetto-loop, l’eterna ripetizione dell’identico cui assistiamo nei talk. E non solo nei talk. La tribuna è occupata sistematicamente sempre dagli stessi, sempre più imbolsiti e prevedibili. Persino manifestazioni di per sé meritorie scadono a parate di solite facce che ormai hanno esaurito gli argomenti. Gli impresari di questo circo ignorano il danno che stanno facendo alla democrazia italiana.

     

    Quale deve essere il minimo sindacale di scienza e competenza per un politico?

    Il ‘cursus honorum’, cioè la lunga gavetta, oggi sostituita dal rapporto personale con il leader, che ama circondarsi di servi sciocchi che lo compiacciano, senza mai contrariarlo. Se unisci la cupiditas serviendi di chi vuol far carriera e la libido dominandi del capo, il risultato è quello che vediamo.

     

    La politica è davvero la tecnica delle tecniche di sofistica memoria?

    Ha a che fare sicuramente con la dimensione sofistica della persuasione, ma non può certo limitarsi a essa. Ci sono una buona persuasione e una cattiva persuasione. L’essenziale è che persuadere sia un mezzo e non un fine.

     

    Almeno da Socrate in poi ci si è posti in maniera scientifica il problema del rapporto tra etica e politica e il solito Aristotele lega in qualche modo la sua ‘Politica’ con l’’Etica Nicomachea’. Quali, a suo parere, le vette raggiunte dall’elaborazione culturale sul tema nella storia umana?

    Aristotele è un vertice, proprio perché vuole che si leggano insieme l’Etica – le Etiche, non solo la Nicomachea – e la Politica. Significa che la politica non può essere disgiunta dal grande tema delle virtù. Una in particolare mi sta a cuore, in questo momento: la temperanza. Ne sento la mancanza. Ne vedo la necessità.

     

    E la logica schmittiana della ‘necessità di un nemico’ e della politica come capacità di decidere nella situazione ‘eccezionale’?

    A questo incipit famoso di Schmitt, grandissimo pensatore, preferisco le Politiche dell’amicizia di Jacques Derrida. La philia ‘fa’ la politica, crea una relazione non autodistruttiva fra gli uomini. La mia idea di politica presuppone l’uscita dalla logica del nemico. 

     

    Esiste una possibile osmosi tra politica e religione o l’approccio laico è irrinunciabile sempre?

    C’è sempre una connessione e non c’è approccio più religioso di quello laico. Croce parla, ad esempio, di religione della libertà, mentre il marxismo è stato una sorta di religione e il comunismo la sua chiesa.

     

    Entro quali limiti la politica può non essere lo specchio della società?

    Due casi.

    Il primo è quando il leader ha il coraggio dell’impopolarità e di svolgere un’azione pedagogica nei confronti del demo. E questo è un modo potenzialmente virtuoso di non essere un mero specchio della società. Il demagogo, invece, asseconda le pulsioni della società, in qualunque direzione esse conducano. 

    Il secondo è quando la politica si rivela incapace di cogliere il mutamento sociale, quando la società è più avanti della politica. L’esempio più perspicuo è quello dei diritti civili.

     

    Dove e quando è nata la politica come scienza?

    Con Platone, che ne parla espressamente nel quarto libro della ‘Repubblica’, definendo la euboulia – l’attitudine alla buona deliberazione – una forma di episteme. Una scienza che coglie l’essere.

     

    Quanto e come la globalizzazione e i social hanno cambiato il concetto di politica e la sua declinazione pratica?

    La globalizzazione, anche etimologicamente, implica la trasformazione dello spazio politico, un processo di de-territorializzazione e vanificazione dei confini. I social sono il vettore del fenomeno – per me inquietante – della disintermediazione. Entrambi hanno condannato all’obsolescenza il nostro linguaggio politico, in ampia misura inservibile, ma anche il modo di fare politica. Aggiungerei: sempre più istrionico, teatrale…

     

    In particolare, non crede che il consenso popolare sia molto più manipolabile del passato, anche recente, mediante l’uso fraudolento delle sconfinate possibilità mistificatorie offerte dall’incalzante progresso tecnologico?

    Assolutamente sì, e, in quanto più manipolabile è anche più mutevole. Basti pensare alla volatilità dei consensi, a politici che – per dirla con Carlo Emilio Gadda – trascorrono da furore a cenere nello spazio di un mattino.

     

    L’Intelligenza Artificiale, che noi già appelliamo ‘timorosamente’ in maiuscolo, si autogovernerà prima o poi, magari cambiando le categorie politiche millenarie del genere umano?

    Questa è davvero una grande rivoluzione, dagli esiti incerti. Con l’IA si possono realizzare obiettivi fino a ieri impensabili e credo ci siano usi che miglioreranno, anzi stiano già migliorando, la forma di vita umana. Ci potranno tuttavia anche essere usi – abusi – che produrranno distorsioni non irrilevanti. In ogni caso, la grande filosofia greca ci ha insegnato che la dimensione artificiale è connaturata all’uomo, il quale non può stare al mondo senza sopperire alla propria scarsissima dotazione originaria (rispetto ad altri animali) senza ricorrere a oggetti tecnici e artefatti. E non dimentichiamo che ogni grande rivoluzione tecnologica è stata guardata con sospetto e attenzione, prima di essere ‘metabolizzata’. Pensiamo all’invenzione della stampa. 

     

    Ettore Zecchino


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