I protagonisti delle due culture

    Ernesto Galli della Loggia

    Ernesto Galli della Loggia

    Professore emerito di Storia contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Scuola Normale di Pisa), Ernesto Galli della Loggia ha insegnato nelle Università di Siena, Perugia, e ‘Vita-Salute San Raffaele’ di Milano. Editorialista del ‘Corriere della Sera’, si è occupato specialmente di storia politica e culturale italiana dell’Otto-Novecento. Autore di numerosi saggi e libri, tra i quali: ‘La morte della patria’ (1996); ‘L’identità italiana’ (1998); ‘Tre giorni nella storia d’Italia’ (2010); ‘Credere, tradire, vivere’ (2016); ‘Speranze d’Italia’ (2018); ‘L’aula vuota’ (2019); 'Vite italiane' (2022); 'Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista' (2024).

     

    Professore, come ci si sente ad essere, ormai da oltre 30 anni, uno degli editorialisti di punta del ‘Corriere della Sera’, indubbiamente tra i più letti in Italia?

    Mi sento soprattutto un uomo libero di scrivere sempre ciò che pensa, forse proprio grazie a questo rapporto così risalente nel tempo, ma anche a causa della mia età, ormai venerabile.

     

    Diceva ‘qualcuno’ che un intellettuale, in fondo, non può non essere anche un opinionista. Condivide?

    Opinionista è una parola dal significato sfuggente. Nei Paesi di tradizione latina come il nostro, la Francia, la Spagna, gli intellettuali hanno un’antica consuetudine ad esprimersi sui giornali quotidiani (in Italia sin dall’Ottocento). Il fenomeno è forse meno diffuso nel mondo anglosassone, dove il dibattito ha luogo, preferenzialmente, sulle riviste culturali. Mi lasci in ogni caso osservare che la stessa patente di intellettuale andrebbe rilasciata con molta cautela. In molti casi sarebbe infatti preferibile parlare, più ‘semplicemente’, di professori universitari.

    Tra le varie tematiche da Lei approfondite si segnala quella dell’educazione scolastica in Italia. Non a caso, ha recentemente fatto parte di una Commissione di studiosi appositamente istituita dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Valditara. Si impone, dunque, una sua valutazione in merito alla riforma in corso.

    Devo premettere di aver fatto parte solo della commissione specificamente relativa ai programmi di storia e, quindi, di non conoscere quelli delle altre materie. Posso comunque affermare che la sola idea di procedere ad una revisione complessiva dei programmi scolastici, ormai datati, sia stata un’ idea giusta. La situazione critica in cui da tempo versa la scuola italiana – causa e insieme riflesso della crisi generale del Paese - richiedeva, tra molte altre cose, anche che si procedesse ad una revisione dei programmi scolastici, specialmente, se così posso dire, della loro impostazione pedagogico-culturale.
    Al netto di ciò, un giudizio serio potrà essere dato soltanto quando la riforma sarà completata e applicata. I programmi, infatti, sono un po' come il budino e la loro bontà si verifica soprattutto dopo averli provati.

     

    Perché, quindi, è così osteggiata?

    Perché in Italia la faziosità politico-ideologica è fortissima ed è assai raro che qualunque opposizione accetti un confronto serrato e intellettualmente onesto su qualsiasi contenuto proposto da qualunque governo. Parlerei di un vero e proprio handicap italiano, non certo limitato alla politica.

    Più in generale, quali modelli di istruzione scolastica da seguire può indicarci in Occidente?
    La scuola affonda, quasi per definizione, le sue radici nel profondo dell’esperienza nazionale e non si presta ad importazioni o esportazioni integrali. Qualche spunto lo si può certamente prendere qua e là, ma non molto di più.

     

    L’attuale crisi dell’Occidente deriva, in parte, anche dalla crisi dell’istruzione pubblica?
    Moltissimo, soprattutto per quanto concerne le classi dirigenti politiche, figlie, appunto, di questi sistemi scolastici in palese affanno. Il fenomeno, effettivamente comune a tutta l’area occidentale, appare particolarmente preoccupante in Italia, dove da decenni viene costantemente ristretto lo spazio riservato alle discipline  umanistiche, che, tuttavia, sono proprio quelle indiscutibilmente più congeniali a una formazione politica.

    Tornando per un attimo ai suoi esordi da docente di storia economica, ci può spiegare i dazi e la guerra mondiale commerciale dichiarata al mondo dal presidente Trump?

    Non sono assolutamente in grado di farlo e l’essermi occupato in gioventù di storia dell’economia italiana nel primo Novecento non mi conferisce alcuna autorevolezza in materia.

     

    Più in generale, cosa si aspetta dalla seconda presidenza di Donald Trump?

    Non so cosa aspettarmi. O meglio, mi sembra che ci sia da aspettarsi di tutto. La particolare volubilità dell’uomo scoraggia l’aspettativa in un disegno coerente, a parte l’accentuato nazionalismo, che molto mi preoccupa. Dal 1917 gli Stati Uniti hanno avuto un approccio democratico alle vicende internazionali e l’attuale torsione nazionalista non può non turbarci.

     

    E i rapporti dello stesso Trump con l’uomo più ricco del mondo?

    A bizzarria si somma bizzarria. Anche Elon Musk è infatti un grande punto interrogativo, forse più problematico dello stesso Trump. Non escluderei, peraltro, che tra i due potessero in futuro sorgere degli attriti o magari qualcosa anche di più grave. A proposito di cultura politica sono convinto, inoltre, che quella di Musk sia prossima allo zero.

    La sua unica esperienza politica attiva si è svolta a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, nell’ambito di un movimento referendario e riformista, orientato, tra l’altro, a ridimensionare i partiti. L’esperienza fu fallimentare, ma i partiti novecenteschi, in Italia, sono comunque tutti scomparsi in pochissimo tempo. Ci regala una sintetica analisi di quei giorni?

    Con diversi amici, sotto ‘l’alto patronato’ del grande giurista Massimo Severo Giannini, mi candidai alle elezioni politiche del 1992, in una lista che creammo insieme, ispirata al movimento referendario in corso. La nostra ‘squadra’ raccoglieva persone dalla formazione eterogenea, saldate dalla consapevolezza della deriva patologica che ormai stava travolgendo il sistema dei partiti. Percepivamo l’avvicinarsi di una crisi generale, e, quindi, di una sorta di ‘liberi tutti’ rispetto ai vincoli che nei decenni quei partiti avevano pure stabilito con l’opinione pubblica del Paese. Crisi che effettivamente ci fu, ma la successiva ricomposizione del quadro politico fu, in un certo senso, assolutamente ‘forzata e artificiale’.  A mio avviso, è mancata un’evoluzione politica del Partito comunista in un partito socialdemocratico e della Democrazia cristiana  in un partito cristiano liberal-conservatore. I cattolici in particolare, si sono liquefatti, in molta parte accettando ‘supinamente’ l’egemonia dei post-comunisti. Di qui, il berlusconismo come diga contro ‘la gioiosa  macchina da guerra” occhettiana e, di conseguenza, l’instradamento della Seconda Repubblica su una via che non mi sembra particolarmente densa di risultati.

     

    Perché in altre nazioni europee le culture e i partiti non comunisti hanno ‘retto’ molto meglio?

    Sono sopravvissute, in realtà, le forze di tipo moderato e liberale, che, a differenza dei socialdemocratici, non hanno risentito con uguale gravità della crisi economica strutturale continentale, che ha gravemente ridotto i margini per l’attuazione di qualunque politica redistributiva. Una situazione destinata a peggiorare, immagino, con il ritorno delle spese militari (prima della Seconda Guerra Mondiale intorno al 8-10% del bilancio dei Paesi europei), a causa dell’ormai conclamato disimpegno statunitense. In un certo senso, il capitalismo non appare  più quella ‘pecora da tosare’ di un tempo. O, come minimo, produce meno lana.

     

    Il suo percorso ‘elettorale’ è stato sempre particolarmente dinamico. Lo ripercorriamo brevemente insieme?

    Dinamico é un gentile eufemismo per mutevole? Ebbene sì, è proprio così. Ho votato fino alle regionali del 1975 per il Partito Comunista, pur non essendo mai stato realmente comunista. Per fugare il rischio di un Pajetta ministro dell’Interno, nel 1976 votai per il Partito Radicale e da allora per lungo tempo ho votato radicale o mi sono astenuto. Oggi ho qualche rimpianto di non aver mai votato per il Psi di Craxi. Nel 1992 ho sperato nel Partito Popolare Italiano e una volta anche in Berlusconi. Ho più volte fatto pubblica ammenda per essere stato, nel 2022, un elettore dei Cinque Stelle, rivelatosi immediatamente un movimento inadeguato alle sfide che aveva baldanzosamente lanciato. Perché l’ho fatto? Perché mi illudevo, appunto, che i 5stelle potessero avvicinare quell’obiettivo che da molto tempo sono convinto debba essere il nostro principale obiettivo, essendo quello da cui dipendono tutti gli altri, vale a dire il cambiamento del sistema politico italiano. Il programma del Governo Meloni, ad esempio, ha alcuni punti, come la separazione delle carriere dei magistrati o il consolidamento del potere del Presidente del consiglio, che mi trovano d’accordo. Ovviamente, bisognerebbe mettere mano a tanto altro. Penso, in particolare, alla crisi della rappresentanza, da molti anni svilita da sistemi elettorali utili solo ai segretari di partito. 
    In generale, direi che non sono mai stato interamente fedele ad un partito perché non ne ho mai trovato uno all’altezza delle necessità profonde del Paese. Mi lasci, infine, sottolineare la non commendevole difficoltà di molti ‘intellettuali’ a ‘confessare’ i propri percorsi politici e la parsimonia delle incursioni giornalistiche in questa parte, pur fondamentale, del loro privato.

     

    Le sue ‘profezie’ più rilevanti?
    Mi sono sempre astenuto dal farle. Rivendico, invece, ma lo faccio per celia, intendiamoci, la paternità di alcuni neologismi di un certo successo nella comunicazione politica in Italia, quali ‘partito di plastica’ e ‘cespugli’.

     

    E gli errori di valutazione?

    Non pochi. Il più clamoroso quello sui Cinque Stelle di cui sopra. Del resto, in compagnia di tantissimi italiani.

     

    Quali politici del passato, italiani e non italiani, hanno maggiormente destato il suo interesse?

    Direi Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo, due miei interessi relativamente recenti. Solo in occasione della crisi della Prima Repubblica ho infatti cominciato ad approfondire la storia politica del mondo cattolico e da allora non ho mai smesso.

     

    La Democrazia Cristiana ha tradito Sturzo?
    Senz’altro: in parte anche consapevolmente e forse perché non poteva che essere così. Ma ancora più gravemente lo stanno tradendo alcuni storici cattolici, con la loro pretesa di dipingerlo come un cattolico-democratico. Sturzo aveva, invece, un imprinting decisamente liberale e ad esempio, era un feroce critico di molte parti della Costituzione. Aveva inoltre ammonito tutti, profeticamente, sui rischi della deriva partitocratica, denunciati già nei primi anni del Dopoguerra. Per ricordare solo un altro tema di rilievo, era allergico all’invadenza statale in economia.

    Il mondo dei social ha certamente condizionato pesantemente le dinamiche dell’apprendimento e del consenso, anche in politica. Solo negativamente?

    Si, non ho alcun dubbio.

    Un discorso simile si potrebbe fare in merito all’’ideologia’ del politicamente corretto?

    Certamente, anche se in modi molto diversi. Torniamo alla sinistra che non ha voluto più essere socialdemocratica e che, come sentenziava il preveggente Augusto Del Noce con riferimento al Partito Comunista Italiano, ha preferito diventare un partito radicale di massa, zelante apostolo del politicamente corretto.

     

    Cosa si aspetta dall’avanzata apparentemente inarrestabile dell’Intelligenza Artificiale?

    Nulla di buono. Sono tentato dal dire che nei confronti dell’Intelligenza artificiale mi sento un luddista!

     

     

    Ettore Zecchino

     

     

     

     

     


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